#UJW24, il diario di Elio Taffi 5. UmbriaJazz e Orvieto, un legame che vince sempre

La sveglia della mattina di Capodanno è sempre inclemente; i buoni propositi di recarmi presto in Orvieto si rivelano vani. Ma come si può pretendere di non rimanere sotto le coperte almeno il primo dell’anno? Specialmente se si proviene da un tour de force come quello a cui è sottoposto Elio Taffi?
In un modo o nell’altro riesco a raggiungere Palazzo del Popolo in tempo per assistere all’esibizione di Sammy Miller & the Congregation.
Ho sentito buone referenze sul loro conto. Si tratta di una band di giovani jazzisti statunitensi amatissimi dal pubblico per il modo solare e divertente con cui usano declinare le loro performances. Difatti, il concerto inizia subito con un blues che più blues non si può, nel quale i ragazzi ammiccano accenti e proposte ritmiche, scambiandosi sorrisi e gesti di assenso. Molly Miller, per altro, colpisce per la grinta e la musicalità con le quali condisce il suo assolo. Il secondo brano viene iniziato, a sorpresa, dagli ottoni smarriti fra gli spettatori sorpresi e divertiti: trovata semplice e vincente, che premia la Congregation con fragorosi applausi. Il repertorio propone alcuni standard noti che vengono originalmente ritrattati ma è proprio il modus operandi del settetto che affascina e “prende” il soporoso (per via dei bagordi di fine anno) pubblico: applausi e ovazioni a scena aperta confermano quanto mi era stato detto. Sammy Miller, il batterista, si fa notare per alcune intuizione di ottimo gusto così come il pianista, David Linard. Niente di più azzeccato per iniziare bene l’anno!
Salgo la scalinata del Palazzo del Popolo perché devo rimediare ad una grave mancanza: quella di non aver già ascoltato Christian McBride Trio.
Signori miei, che classe! Immediatamente, da poche note si capisce che McBride non è a caso il numero uno. Il sound del trio è spettacolare, sembra quasi di essere trasportati in un raffinatissimo club di New York con musicisti in smoking che accarezzano la nostra anima.
McBride è uno dei contrabbassisti più contesi del pianeta ma i suoi due colleghi non scherzano mica. Christian Sands, il pianista, mi ha impressionato per un mostruoso assolo nel quale ha dimostrato di possedere - fra tutto il resto - uno stupendo ribattuto di polso che farebbe invidia ai pianisti classici che si cimentano con la Settima Sonata di Prokof’ev: mostruoso! McBride se la ride, sornione, sotto i baffi: conosce bene coloro che ha invitato nel suo trio e immagina quale impressione possono scatenare presso il pubblico italiano; East of the Sun è da brividi: mai ascoltato dal vivo una roba simile. Giù il cappello, signori: questa è grande musica.
Mi allontano a malincuore, il récital non è finito ma se non fosse per presenziare alla Messa della Pace non me ne sarei mai andato prima dell’ultimo brano.
La Santa Messa officiata presso la Cattedrale Santa Maria della Stella è comunque un altro appuntamento irrinunciabile; il nostro Duomo si rivela ancora più mistico e affascinante quando accoglie duemila persone come è avvenuto oggi. È emozionante ritrovarsi tutti insieme per condividere due ore ad alta densità spirituale. Padre Benedetto Tuzia, il vescovo della diocesi di Orvieto-Todi, propone un’omelia feconda di tante riflessioni; una su tutte: riconoscere e rifiutare la tirannia dell’egoismo, in un mondo in cui chi ha non può rifiutare aiuto a chi non ha. Parole semplici e per questo massimamente efficaci.
Dexter Walker & Zion Movement hanno il compito di eseguire i canti liturgici; si tratta di un coro gospel di Chicago, fra i massimi esponenti del genere. Intensi e coesi, i singers conquistano il cuore di ognuno per l’interpretazione vibrante con cui espongono il programma prescelto. Il concerto al termine della Messa è fra i più coinvolgenti in assoluto che io ricordi in Duomo. Zion Movement è formato da voci formidabili e potenti, Orvieto risponde con un calore ed un entusiasmo indescrivibili. Una forza vibrante e commovente scuote il Duomo. Cosa può fare, la Musica…
Il mio pomeriggio, dopo queste note indimenticabili, ha preso un’ottima piega. All’inizio di via del Duomo mi imbatto in Maurizio Capuano, contrabbassista degli Sticky Bones, al quale trasferisco i miei sinceri complimenti per la bella esecuzione al jazz lunch del giorno prima.
Bellissimo, godibile e divertente, ma ritengo che dietro al vostro spettacolo ci sia un lavoro serissimo e profondo.
Si, è verissimo. Questo è un progetto nato un po’ di anni fa, nel frattempo è cambiato il gruppo come componenti; ora siamo rimasti in cinque e siamo assolutamente stabili. È una ricerca filologica su un periodo particolare della musica tradizionale americana: dal 1900 al 1940. La nostra mission, il nostro obbiettivo è ridare al pubblico un pezzo rivisitato ma rieseguito alla maniera di quei tempi.
Come si fa a dire questo? Ci sono documenti, scritti a cui voi vi rifate per affermare la piena filologicità delle vostre intenzioni?
Intanto c’è un sito internet (document record, ndr) in cui c’è un sacco di materiale da ascoltare; difficile da ascoltare, perché provenendo da registrazioni analogiche al grammofono, non è così chiaro decifrare cosa fanno precisamente i vari strumenti. Però alla fine ci siamo riusciti.
Non credo ci siano spartiti, immagino che li abbiate tirati giù voi.
Si, si. Per esempio, io suono il contrabbasso e ho scoperto che a quei tempi, probabilmente, c’erano ancora contrabbassi a tre corde; quindi, la corda di sol, almeno per il progetto che abbiamo fatto di Bessie Smith, l’ho usata pochissimo.
Ieri mi ha particolarmente colpito un brano articolato in tanti momenti diversi, che iniziava con un quasi recitativo operistico.
Si, “Some of these days”.
Un brano non così immediato come altri, che bisogna “attendere” per farselo piacere.
È come una costruzione, si scarta piano piano. Si arriva al clou alla fine.
Questa musica è per nulla semplice, anzi la definerei proprio complessa.
Si, apparentemente è molto semplice ma per eseguirla in modo appropriato ognuno di noi ha reimparato a suonare il proprio strumento.
Le tonalità sono quelle originali?
Si, sono le tipiche tonalità blues di quei tempi, lasciate assolutamente originali.
Bene, grazie per la disponibilità e tantissimi complimenti perché si percepisce chiarissimamente la professionalità che sostiene Sticky Bones.
Grazie a voi!
E con questa piacevole chiacchierata, si concluderebbe la mia esperienza ad Umbria Jazz Winter 2016/2017. Non posso, però, che tornare per un ultimo lampo musicale al Ristorante Al San Francesco.
Al Cenone di Fine Festival si registra l’ennesimo tutto esaurito della 24ma edizione, almeno allo splendido Ristorante da me così amato. Mi risulta difficile pensare ai Jazz Lunch di Umbria Jazz spostati in un’altra location; in quest’ultimo appuntamento il servizio è al tavolo e questo non fa che ulteriormente esaltare l’organizzazione e la professionalità di Cramst. Non è affatto semplice riservare ad ognuno dei centoventi commensali cure ed attenzioni tipiche dei servizi migliori, ma questa è la prassi del San Francesco. Avrei voluto poi soffermarmi sul lato gastronomico, che si preannunciava esaltante, ma il lavoro di Elio Taffi reclamava la giusta concentrazione.
Le note di Accordi Disaccordi sono le ultime che apprezzo, per questa 24ma rassegna. Ancora una volta, pur con le mille difficoltà di cui tutti sappiamo, Umbria Jazz Winter ha reso Orvieto la città più bella del mondo.
Non possiamo neanche lontanamente pensare di perdere questa kermesse, semmai sin da dopodomani (perché domani sarà il giorno del meritato riposo, per tutti ed anche per me) occorrerà riflettere su come potenziarla limando gli aspetti che devono essere migliorati.
Io ringrazio tutti voi Amici Lettori che avete avuto la bontà di leggermi e ringrazio dal profondo del cuore il Direttore Gabriele Anselmi per avermi permesso di comparire nuovamente sulle onorevoli pagine online di orvietonews.
Spero che l’entusiasmo per UJW e l’amore per la mia-nostra splendida città vi sia giunto appieno.
All’anno prossimo, spero!
Vostro Elio Taffi
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