#UJW24, il diario di Elio Taffi -1. Prima giornata, partenza con il botto

Eccoci qua! L’ennesima edizione di Umbria Jazz Winter sta per incominciare: come sapete bene, si tratta di un appuntamento particolarmente atteso da Elio Taffi. Tuttavia, questa ventiquattresima rassegna è arrivata per me quasi in sordina; oberato dagli impegni di lavoro, non mi sono quasi accorto dei furgoncini che da un paio di giorni scaricano incessantemente strumenti musicali ed arredi nelle varie location cittadine deputate ad accogliere artisti ed appassionati.
Come iniziare meglio se non andando a premiare di applausi i giovani borsisti delle Clinics 2016 Berklee/Umbria Jazz? Alla Sala dei Quattrocento, Palazzo del Capitano del Popolo, si esibiscono i ragazzi di Giovanni Tommaso, il sempiterno Maestro che, con amore e cura, alleva da una vita generazioni e generazioni di nuovi talenti. Anche quest’anno, traguardo centrato! Vittorio Esposito (pianoforte), Gabriele Marciano (sassofono), Cesare Mecca (tromba), Alessandra Abbondanza (voce), Roberto Marceddu (chitarra), Federico Gueci (contrabbasso), Edoardo Battaglia (batteria): questi i nomi di un complesso di tutto rispetto, nel quale il trombettista ed il sax si elevano, a più riprese.
Incontriamo il grande Giovanni Tommaso, che quest’anno – finalmente - riapplaudiremo ad UJW. Innanzitutto, complimenti, Maestro, per la qualità dei talenti sfornati anche in questa sessione!
Si rinnova in me la sensazione di orgoglio nel portare a Umbria Jazz Winter dei ragazzi promettenti, pieni di talento ed umanamente molto in gamba.
Ecco, Maestro. Al di là del fatto artistico-tecnico - la vita non riconoscerà sempre a tutti i ragazzi il giusto valore del loro talento - in questi anni, da un punto di vista umano, lei come trova i nostri giovani musicisti?
Io li trovo migliorati, da noi si respira un’aria diversa. C’è tanta umanità, rispetto; è ovvio, talora esce fuori qualche eccezione ma mediamente sono ragazzi educati, che apprezzano i consigli e che hanno voglia di imparare: elementi indispensabili per crescere artisticamente e, secondo me, umanamente.
Per ultimo, una breve nota su ciò che sentiremo da lei, mi pare domani, vero?
Posso dirvi che il tributo che facciamo a Gershwin, chiamando questo progetto “Around Gershwin”, è un tentativo di fare la mia musica, quella che scrivo da sempre, unitamente ai brani che sono proprio dell’autore di “Rapsodia in blu”. Ho cercato di rendere il tutto sotto la cifra dell’unità stilistica. Tentativo certamente non facile, se uno si impegna a scrivere pagine di carattere contemporaneo. Voi deciderete se il tentativo è andato a buon fine.
Si può parlare, quindi, di elaborazioni?
Elaborazioni, si. È giusto. Più che altro, insisto, è un tentativo - se vuoi un po’ presuntuoso - di portare Gershwin in un territorio in cui io mi sto muovendo da anni. Con molta modestia, non so come potrebbe reagire Gershwin se potesse sollevarsi dalla tomba ed ascoltare il mio lavoro. Sarei molto curioso”.
Il Maestro Tommaso non smentisce mai né la sua classe né la sua misura.
Quattro salti veloci, in una via del Duomo insolitamente affollata per essere mercoledì ed il primo giorno di Umbria Jazz Winter; raggiungo il Museo Archeologico Nazionale di Orvieto. Ivi è previsto il concerto della Orvieto Jazz Orchestra, evento non inserito nel cartellone ufficiale di UJW ma che comunque fiorisce dall’humus squisitamente musicale che da sempre caratterizza la rupe. Il celeberrimo Lamberto Ladi, polistrumentista di valore, compositore ed arrangiatore raffinato nonché direttore della gloriosa Banda Filarmonica Mancinelli, è il leader di questa nuova formazione che raccoglie i migliori musicisti di Orvieto, coinvolgendo il generoso vivaio della Scuola Comunale di Musica “Adriano Casasole”. L’Orchestra si muove con vivacità e competenza sull’infinito territorio jazz: dallo swing al bebop, al funk, al soul; questi i componenti: Roberto Forlini, Andrea Vergari, Enrico Bellocchio, Valerio Bellocchio, Riccardo Femminelli e, naturalmente, Lamberto Ladi. Niente da dire: la qualità tecnico-strumentale è di livello elevato così come l’arrangiamento dei brani presentati, impreziosito da autentiche perle disseminate qua e là. Blue Monk, ad esempio, è stato eseguito con una fantasia ed una levità pregevoli: bravissimi i ragazzi orvietani e pubblico, giustamente, in tripudio!
Maestro Ladi, questa formazione - l’Orvieto Jazz Orchestra - come si inserisce nel tuo percorso artistico? Come è nata, da cosa si sviluppa e dove vuole arrivare?
Sono varie volte che tentiamo di iniziare una simile esperienza; è importante che Orvieto abbia una sua band capace di suonare questo linguaggio, questa grammatica musicale, perché fin dal dopoguerra, addirittura, qui erano presenti dei gruppi jazz notevoli. Fra i primi, ricordo “L’Arcobaleno”, di cui faceva parte mio padre (il chitarrista Massimo, ndr); naturalmente si suonava uno swing più leggero, poi pian piano lo stile si è evoluto così come è successo al jazz stesso. Devo essere sincero: ad Orvieto ci sono degli ottimi musicisti; alcuni hanno, tra virgolette, avuto fortuna e se ne sono andati. Io son rimasto con la forza e la volontà di costruire qualcosa grazie alla Scuola di Musica ed alla Banda cittadina, di cui sono direttore. Introduco spesso, all’interno del repertorio concertistico della Filarmonica, brani jazz. Nell’Orvieto Jazz Orchestra ci sono dei validi giovani, al basso, alla chitarra ed alla tromba (un ragazzo di 17 anni, ndr): le nostre speranze artistiche.
Avete un repertorio d’elezione?
No, stiamo andando a braccio. La nostra intenzione è quella di percorrere vari generi jazzistici, diversi fra loro; questa sera abbiamo proposto un assaggio: partiti dal blues siamo finiti col funk. Il linguaggio del jazz è così complesso! Ritengo che tutta la gente dovrebbe partecipare con attenzione ad un concerto jazzistico, perché non si sa mai dove, in quel momento, l’esecutore ti va ad aprire chissà quale porta. Magari sbagliando, e quindi poi la richiuderà. Thelonious Monk diceva spesso “Ho fatto gli errori sbagliati”. Nel jazz, l’errore può rivelarsi, talora, una risorsa espressiva; differentemente dalla musica classica, dove la lettura dello spartito deve essere la più rigorosa possibile. Il bello del jazz è che si possono confondere le idee, sia nell’esecutore che nell’ascoltatore, per aprire continuamente delle porte”.
La bella sorpresa orvietana risveglia in Elio un certo languorino; si affaccia una voglia di porchetta, quella saporita tipica di queste parti, non particolarmente magra e generosamente adorna di fegatini e finocchio condito. Ricerca prolungata ma senza risultati: pare che ad Orvieto la porchetta si trovi solamente di giovedì! Due salsicce cotte alla brace, comunque, riusciranno a calmierare la situazione.
Van Hessen, al Meeting Point di Palazzo dei Sette. Il Vincent che lo scorso anno rappresentò una inaspettata sorpresa per il pubblico invernale del jazz, in questa edizione è stato premiato dalla direzione artistica con una pletora di esibizioni in programma. Il suo sound, grezzo e diretto, mi colpì allora particolarmente; l’olandese, poi, sprizza simpatia da tutti i suoi capelli elettrizzati. Senz’altro non delude le aspettative, neanche quest’anno; una esecuzione di A Whiter Shade of Pale cattura la mia approvazione: chitarra essenziale ma efficacemente ossessiva e buona estensione vocale verso l’acuto. Bravo Vince, tornerò a sentirti ancora, con molto piacere.
La serata non può che concludersi con il concerto al Teatro Mancinelli. Sul palcoscenico, Chihiro Yamanaka, nella sua formazione in trio con Shaney Forbes (batteria) e Dan Casimir (contrabbasso). Signori, una musicista straordinaria! La minuta pianista giapponese è una virtuosa incredibile. Tecnica stratosferica: ottave di polso, lunghi passaggi rapidissimi ed articolati, ribattuti sulla stessa nota che farebbero l’invidia di colui che dovesse misurarsi con Islamey di Balakirev.
Dalle prime note capisco che si tratta di un’artista sublime, di quelle che ti suscitano incredulità. Tanta agilità è congiunta ad un raro controllo del suono; per altro, il tecnico audio ha amplificato splendidamente il coda Fazioli. Chihiro dimostra quanto la scuola giapponese non abbia più nulla da invidiare ai colleghi jazzisti del mondo intero; insisto nel ribadire che siamo in presenza di una vera stella. Indimenticabili per me saranno le versioni di Take Five, immortale brano composto da Paul Desmond per il The Dave Brubeck Quartet nel 1959, qui proposto con una ostinazione ritmica di grande efficacia, e poi di Summertime; sissignori, lo standard di Gershwin può ancora essere manipolato e riutilizzato con sapienza e fantasia, per far sbocciare un fiore meraviglioso ed ancora ignoto.
È proprio vero, questa rivisitazione è di tale fattura ed eleganza che, al termine, decido di uscire dal Teatro, sazio di note e soddisfatto, e torno in ufficio. Per me, questa edizione di Umbria Jazz Winter ha già trovato la sua stella. Non una parola di più. Mamma mia, sono le 2 e 18!
A nanna, buonanotte…
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