#UJW24, il diario di Elio Taffi -3. Il jazz che scalda il fisico e l'animo di chi lo ascolta

Sole pieno e tramontana gelida: si presenta così la terza mattinata di UJW. Le condizioni meteo stanno giocando a favore degli appassionati che hanno pacificamente invaso la nostra bella Orvieto.
Ogni angolo, ogni via, ogni piazza risuonano in questi giorni incantati; i luoghi di ritrovo si sono attrezzati a fare musica dal vivo con gli ottimi artisti locali per allietare i tanti ospiti alla ricerca di emozioni e ricordi da conservare e portare a casa.
Mentre mi reco al Museo Emilio Greco, a metà via del Duomo avverto un noto richiamo: i Bartender stanno suonando in un bar cittadino. Nulla da dire, si tratta di uno fra i complessi orvietani di maggior spessore. Tre chitarristi di grande qualità si sfidano alla pari su spartiti ad alto tasso tecnico; gragnuole di note, simili a raffiche di mitraglia, si spargono in mezzo a quanti, fermi in cerchio, sono attenti ai virtuosismi dei formidabili musicisti. Ammiro i Bartender da anni, non posso fare a meno di essere travolto dai loro rapidissimi contrappunti, dalle invenzioni ritmiche e armoniche che ne caratterizzano inconfondibilmente il linguaggio, dalla sfrontata perizia tecnica con cui conquistano scale ed arpeggi. Oci ciornia è una novità del repertorio e si rivela gemma irresistibile; un’altra gemma.
Posso fermarmi poco, mi attende un concerto che si preannuncia fantasmagorico: il duo di contrabbasso con Christian McBride e John Patitucci. Come avere in squadra Mazzola e Rivera: due pesi massimi mondiali. Già sarebbe straordinario vantarne uno, in un festival di jazz, figuriamoci entrambi. Che dire, memorabile è poco… Il raffinato esperimento cattura sin dalla prima nota il pubblico, mai così gremito al Museo Greco. I due contrabbassi cantano, piangono, corrono, sorridono, volano, languiscono. Il tempo si ferma, la magia della musica si compie e il mondo passa in secondo piano. Il genio, quello puro, è comprensibile a tutti; ognuno dei presenti si rende conto che sta assistendo alla partita del secolo. Non ci sarà un vincitore, non può esserci; i due fuoriclasse si riconoscono e si rispettano, si divertono a constatare come l’altro intuisca al volo le proprie intenzioni musicali. Un vero spettacolo, grandioso. McBride sembra condurre il gioco, parte spesso all’attacco; Patitucci risponde senza affanni, o quasi, rintuzzando le folate offensive e piazzando qualche contropiede insidioso. Sacchi vs Trapattoni, ognuno con il suo tipo di giuoco e i suoi interpreti ideali. Carlo Pagnotta, presente ancora al Greco, si gode intensamente il concerto; ancora una volta, la sua intuizione da direttore artistico si rivela più che azzeccata ed alla fine del programma ufficiale invita il pubblico, che si sta spellando le mani da due minuti, ad alzarsi in piedi. È l’ovazione che convince i due giganti a concedere un bis. Al termine, McBride e Patitucci si abbracciano, provati e felici come ragazzini. Come avrebbe avuto a dire il mitico Gianni Brera: 0 a 0, partita perfetta.
Qui al Greco, signor Pagnotta, ci ha ormai abituato ad eventi straordinari: ieri Wilson & Nash, oggi McBride & Patitucci.
Ieri non era una sorpresa; per la terza volta qui ospiti, conoscevamo ciò che Wilson e Nash avrebbero potuto fare; oggi, McBride e Patitucci si sono trovati per la prima volta sullo stesso palco, non hanno mai suonato insieme ma gente di questo calibro non ha bisogno di prove.
Come dargli torto, a mister Pagnotta.
Un veloce ristoro e poi ancora al Palazzo dei Sette; desidero ascoltare Accordi Disaccordi, dopo la buona impressione dello scorso anno. Chitarra solista (Alessandro di Virgilio), chitarra ritmica (Dario Berlucchi) e contrabbasso (Elia Lasorsa), per un sound interessante in chiave gypsy.
I giovani artisti sono bravi, ci sanno fare e regalano un’ora divertente ma il loro repertorio è cambiato da quello che ricordavo, diciamo evoluto. Ora le riproposizioni e le trascrizioni di classici italiani ed internazionali sono state sfoltite a vantaggio di pezzi inediti ed originali. Se questa sarà la via futura del gruppo, si tratterà di una scelta coraggiosa ed apprezzabile, che andrà supportata da ancora maggiore perizia ed abilità compositiva.
L’anno scorso vi avevo ascoltato ad UJW per la prima volta e mi era molto piaciuto il vostro progetto musicale, garbato e gradevole. Quale sarà la vostra evoluzione stilistica nel futuro? Come vi vedete fra 5 anni, artisticamente parlando?
Siamo partiti suonando Django Reinhardt, ora ci stiamo concentrando sulle composizioni originali. Diciamo che il nostro futuro lo vediamo più su musica propria, come facciamo adesso. Questo di oggi è forse uno dei primi spettacoli con una scaletta di brani quasi solamente nostri. Nel futuro prossimo, almeno un paio d’anni, andremo avanti in questa direzione: brani originali.
Avete competenze in merito, intendo nella composizione?
Scriviamo in maniera molto istintiva. Noi attingiamo al genere gypsy jazz anche se, come diciamo sempre, siamo italiani, e si sente; prendiamo un po’ di qua, un po’ di là, lo mettiamo insieme in maniera originale: questo è quello che stiamo facendo.
Dado Moroni e Luigi Tessarollo, pianoforte e chitarra: alla Sala Expo del Palazzo del Popolo. Due artisti di notevole raffinatezza per un programma che abbina due strumenti non sempre così cordiali fra loro. Il repertorio è quello dei più classici standard, da Gershwin a Duke Ellington, a Porter, a Rodgers. La particolarità di questo duo risiede nella pacata imprevedibilità dei due musicisti: è di tutta evidenza il tratto improvvisativo che emerge dalla loro performance. Titolo della canzone, accordo d’impianto e poi, via: si parte. In fondo, trattasi di due fra i jazzisti italiani più apprezzati del momento. In particolare, Dado Moroni, con la sua postura composta, i movimenti ridotti all’essenziale, mi ricorda vivamente il mai troppo compianto Renato Sellani: svolazzi raffinati, armonie pennellate, temi sussurrati, mano sinistra agilissima ma non dirompente, tecnica al servizio della musica. Ecco, in questo concerto, al quale arrivo - lo ammetto – un po’ stanco, cerco di rilassare il mio corpo, sulla morbida poltroncina della Sala Expo, e chiudendo gli occhi immagino di rincorrere lunghe e tortuose melodie su autostrade colorate e sgargianti. Non sorridete, la caponata di peperoni consumata a pranzo non c’entra nulla.
Prevedo un piccolo break ma ho la fortuna di incrociare il sassofonista Max Ionata, che il giorno prima avevo ascoltato col suo Organ Trio. Max è un signore e si ferma volentieri a rispondere alle mie domande pseudo-zen.
Max, quale impressione hai di Umbria Jazz Winter? Scusa la banalità della mia domanda.
Beh, non è una domanda tanto banale. Ogni volta che vengo qui è sempre una novità; il posto è lo stesso ma cambiano le persone, cambiano gli ambienti.
Quante volte sei stato a Orvieto?
Ieri proprio ripensavo che questa è la mia quarta volta. Sono felice di far parte di UJW, uno dei Festival più belli al mondo in una delle città più belle al mondo. Questo è fondamentale, perché l’atmosfera si crea con le persone e con i luoghi. Ad Orvieto si libra una particolare magia, unica ed irripetibile. Ci si ritrova con amici, si suona insieme: una condivisione a 360 gradi del jazz.
Questo tuo progetto in particolare lo porterai ancora in giro?
Sono sicuro di si, è un progetto giovane. Il disco è uscito nel maggio 2016 e sta andando veramente molto, molto bene; cosa per altro strana, perché oggi i dischi non li compra più nessuno.
E per il futuro?
Sto lavorando a delle cose diverse in Olanda con colleghi nord europei, poi forse un quartetto nuovo e tutto italiano ma non c’è ancora nulla di sicuro; lo saprete sicuramente, se e quando si realizzerà.
Un auspicio per il 2017, oramai alle porte?
Io spero che coloro che hanno il potere abbiano sempre più sensibilità per l’arte, in particolare per la musica, che soffre in questo periodo una crisi drammatica. Temo che le cose fatte in superficialità, come oggi se ne vedono tante in giro, portino a far scemare le cose belle a favore del becero e del facile. Bisogna che le istituzioni stiano attente a questo passaggio epocale perché fra pochi anni potremmo ritrovarci più talk show e cose inutili e meno arte e cultura.
Grazie Max, uno splendido 2017 per te!
Cari Amici lettori, non mi resta che salutarvi: a voi il buongiorno, a me la buonanotte…
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