cultura

#UJW25 Il diario di Elio Taffi - Terza giornata: Gino Paoli, una storia italiana

domenica 31 dicembre 2017
di E. T.
#UJW25 Il diario di Elio Taffi - Terza giornata: Gino Paoli, una storia italiana

Il tempo non migliora, il cielo è coperto e così rimarrà sino a pranzo.

Colazione a casa, riservo l’uscita mangereccia per merenda. Poi vedrete…

Mi reco al Museo Emilio Greco, del chitarrista Marc Ribot ho sentito faville: come posso perdere l’occasione di ascoltarlo?

Sbaglio i tempi, invece, ed arrivo a concerto ampiamente iniziato.

Che dire? Un musicista straordinario, dal quale puoi aspettarti di tutto perché la musica scorre nelle sue vene. Come giro gli occhi, incrocio quelli di Maria Pia De Vito, la cantante che avevo tanto apprezzato il giorno prima; è lì come spettatrice, non posso resistere a farle qualche domanda…

Signora De Vito, complimenti vivissimi per lo spettacolo di ieri; ha visto quale successo di pubblico, pur con un repertorio che non era certo fra quelli di più immediata comprensione? Vorremmo sapere della sua passione per Mitchell, come mai ama tanto la sua musica?
Joni Mitchell è un’artista che mi ha sempre interessato, la ritengo un’artista “rinascimentale” a tutto tondo: è una poetessa, una pittrice, una compositrice, pianista, chitarrista; ha saputo attraversare innumerevoli generi in trentacinque anni di carriera; ha incontrato, in un certo momento, musicisti jazz come Pastorius ed Erskin che le hanno dato la sua vera casa. Secondo me, lei è sempre stata, internamente, una jazzista nel senso del suo modo di suonare la chitarra con le accordature aperte e delle forme delle canzoni che sono diventate via via sempre più asimmetriche. A partire dal disco “Mingus” è venuto fuori il suo lavoro di improvvisazione fonica; durante la registrazione disse ai suoi musicisti: io voglio fare dei sound painting, dei dipinti col suono. Quindi un’artista interessantissima che per me che sono una jazzista, pur frequentando generi musicali diversi, è stata un esempio di comportamento: alla ricerca della propria poetica attraverso i territori più diversi. Il pubblico di ieri sera, qui ad Orvieto, è stato meraviglioso; silenzioso e partecipe, ha favorito lo scambio reciproco di emozioni.

Lei ha una voce fantastica ma credo che sia supportata da una tecnica non indifferentemente.
Beh, sono più di trentacinque anni di canto, eh!

Come fa a mantenere questo livello di prestazione? Ho ammirato le sue suggestive mezze tinte, i suoi filati…
Io cerco la naturalezza e l’equilibrio quando canto, cerco la semplicità; il corpo è il grande maestro che va ascoltato e compreso. Il mio è un canto molto interiore, alla continua ricerca di equilibrio che pratico quotidianamente

Quando ha capito che il canto sarebbe stata la sua vita?
L’ho capito ad otto anni, ho cominciato a praticarlo a quindici, a diciannove ho deciso che avrei fatto solo la musicista, nella mia vita.

Bella ed interessante chiacchierata, è sempre un piacere scambiare quattro parole con artisti di questo rango.

Per Umbria Jazz Winter, Orvieto si è ben organizzata. I vari locali propongono, collateralmente al programma ufficiale, assaggi di esecuzioni dal vivo con le ottime formazioni locali; in una di queste vetrine scorgo i Bartender, tre chitarre agilissime che mi piacciono all’inverosimile. Svedonio è gentilissimo nel rispondermi fra un brano e l’altro.

Da Hong Kong ad Orvieto, come è stato il ritorno?
Ah, il ritorno è stato bellissimo; abbiamo trovato un bel clima!

Comunque, sugli spizzichini siamo ancora avanti, no?
Eh sì, solo sugli spizzichini! No, scherzo. Comunque una bellissima esperienza che ci ha portato a conoscere una realtà brillante, vitale ed interessata.

Quali novità, nel 2018, per i vostri appassionati?
Faremo un nuovo disco, a breve, in versione cd e dvd, utilizzando i filmati originali della tournée in oriente.

Interessante, questa giornata. Tutte queste parole mi hanno stimolato un certo languorino. Non ci metto molto a capire che è voglia di dolce e mi ritrovo, quasi inconsapevolmente, all’interno della Gelateria Pasqualetti. Il pandoro gelato sembra di dimensioni impegnative… Sembrava, però…

Il resto del pomeriggio lo dedico alla ricerca di qualche regalino ritardario per gli amici più stretti; nella mia agenda spicca l’orario delle 21:30: mi ricorda l’appuntamento fissato con il maestro Gino Paoli, presso il backstage del Teatro Mancinelli, per una corta intervista prima della replica di “Due come noi…”

Il maestro è pronto, vestito elegantemente di blu e seduto comodamente su una poltroncina del camerino. Gli occhiali classici con lenti "azzurrate", la sigaretta tenuta saldamente nella mano destra e sincera disponibilità ad ascoltarmi.

In questa fase della sua carriera, il consenso e la benevolenza del pubblico sono evidentissimi; la gente viene ad applaudire uno dei più grandi musicisti attualmente attivi in Italia.
Sopravvissuto, direi.

Non dico che gli spettatori l’applaudono a prescindere, però già al momento dell’acquisto del biglietto sanno che assisteranno a qualcosa di imperdibile. Questo le cambia, un po’, il concetto dell’applauso?
Io non cerco l’applauso, non l’ho mai cercato. C’è un filo esilissimo tra il consenso e il rapporto che si crea. Il consenso è una cosa che puoi cercare, e c’è molta gente che lo cerca usando anche i mezzi che ti insegna il palcoscenico. Io ho sempre detto che non cerco una massa critica che mi applauda o che mi ascolti, io cerco tante solitudini che parlano con me. E questo è il mio concetto; io cerco di gettare un ponte fra me e la gente, l’applauso può essere, appunto, la conseguenza del fatto che uno si sente vicino a quello che dico. Ho cominciato questo discorso dicendo che c’è un limite esilissimo tra il consenso e il resto. Io so di usare una tecnica, certamente, perché la tecnica la impari; dopo sessant’anni, sarebbe buffo che non l’avessi imparata, però non la sfrutto per avere il consenso. Non canto per piacere, canto perché voglio fare una cosa giusta io; canto per me, non canto per gli altri.

C’è una canzone, fra le sue, che le dispiace non abbia avuto il grande successo di altre?
Si, parecchie. Ci sono canzoni che ho riproposto tre-quattro volte, non rendendomi conto che non trovavano successo e non colpivano l’obbiettivo, cioè l’emozione. La canzone è una magia, tre note e tre parole che stanno in piedi, bene insieme, a prescindere se è bella musica o brutta musica. Pensa a “Marina, Marina, Marina, ti voglio per sempre sposar”, canzone che non ha né un testo né una musica decente; eppure è una canzone che ha spopolato perché c’è una magia in quelle tre parole che, senza spiegazione alcuna, ha funzionato. Le canzoni sono così, sono dei flash che possono prendere o non prendere. Il caso di “Quattro amici al bar”; io l’avevo creata all’ultimo momento per completare il disco e, poi, non so dirti cosa ha fatto di vendite. Tu calcola che un grosso editore, un grosso produttore di musica, una volta mi disse: “io non c’ho capito mai un cavolo, mai capito se una canzone poteva funzionare oppure no”.

Grazie maestro!
Ma si figuri.

Si è fatto tardi. Attraverso la città percorrendo via Cavour: quanta gente e che bel clima allegro. Non ho scritto prima di oggi che, ad occhio, le presenze sono su livelli top! Sin dal 28 dicembre.

Buonanotte a me e buongiorno a voi.

 

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