cultura

La Cappella del Corporale: nel cuore dell'Eucarestia

giovedì 14 agosto 2025
di Mirabilia Orvieto

L'Eucarestia di Maria

"Immergiti, o anima che ne sei capace…tu che sai per che cosa sei nata" (Pseudo Germano di Costantinopoli, XII sec.). 

Fu il vescovo Tramo Monaldeschi della Cervara(1328-1344), a voler fare del duomo di Orvieto un santuario dell’eucarestia. A tale scopo avviò il progetto di una nuova cappella e di un prezioso reliquiario, dove custodire il miracolo di Bolsena. In quel lino insanguinato, che ogni anno veniva portato in processione per le vie della città, tutti potevano ammirare il potere dell’ostia consacrata che si mostrava per “ciò che era veramente”. Ogni prodigio eucaristico dipinto nella cappella del Corporale diventava un baluardo inespugnabile a difesa del sacramento. Dall’eremita che erige una chiesa a Satana, alla casalinga che ruba l’ostia per cucinarla, dal bambino ebreo convertito alla fede cristiana, al disprezzo dell’ostia da parte di un pescatore, tutto era lì per confutare l’ignoranza dei profanatori e combattere Catari e Albigesi che con le dottrine eretiche dissacravano l’eucaristia. 

Era ancora vivo ad Orvieto il ricordo del martirio di sangue del podestà Pietro Parenzo, ucciso nel 1199 dai Patarini, nemici acerrimi della Chiesa. Per questo, nel 1263, Urbano IV, appena un anno dopo il miracolo di Bolsena, non esitò a promulgare la Bolla Transiturus, estendendo a tutta la cristianità la festa del Corpus Domini con si ribadiva la verità del mistero della transustanziazione. Occorse la lungimiranza dottrinale dei pontefici come anche le visioni mistiche di Giuliana di Liegi nel sud della Francia e di Angela da Foligno in Umbria, per riaffermare tutto il potere divino dell’ostia esaltato nei tanti miracoli eucaristici dell’epoca: al di là di ogni dubbio quei prodigi mostravano come “il pane e il vino si mutassero nel corpo e nel sangue di Cristo”. 


Pietro Parenzo

Bastava il particolare di una scena per persuadere i fedeli sulla realtà carnale del Signore racchiusa nell’ostia e sull’atteggiamento spirituale per accostarsi ad essa. La grande scena della Crocifissione, che dominava la parete dell’altare, si univa così alle immagini delle messe miracolose di Acri e di Bolsena, poste ai lati dell’altare, formando una mistica scenografia volta a far rivivere durante la messa il dramma della Passione. Sul monte Golgota gli angeli raccolgono in una coppa il sangue della redenzione sgorgato “dalle piaghe di Cristo”, lo stesso sangue che effuse copioso dall’ostia di Bolsena e dal costato del Cristo-fanciullo apparso nella messa di Acri, riversandosi nel calice eucaristico. E questo grande mistero era potentemente rievocato dalla reliquia del Corporale di Bolsena, che dal suo maestoso tabernacolo di pietra ricordava a tutti come quelle gocce di sangue che macchiarono il sacro lino, recavano ancora “impresse figure a somiglianza di uomo”. Un segno divino dove il popolo di Dio poteva trovare rifugio e conforto nel suo pellegrinaggio terreno: in esso risplendeva, come luce nelle tenebre, il potere ineffabile dell’eucarestia che avrebbe trionfato sul male del mondo e sull’inganno delle eresie. La reliquia si fondeva perciò con l’unico e vero corpo e sangue di Cristo, presenti sull’altare nelle specie del pane e nel vino, poiché “in nessun modo - scriveva Innocenzo III nel De sacro altaris mysterio - può esistere un corpo senza sangue oppure un sangue senza corpo”.

Già dai primi secoli del cristianesimo venivano diffuse le storie apologetiche di messe miracolose, e tra esse la più nota e tramandata era quella del prodigio eucaristico di Scete che appare in una nicchia della cappella. L’antico racconto, tratto dai ‘Detti e fatti dei Padri del Deserto’(IV-V secolo), narrava di un vecchio eremita d’Egitto, “rozzo nelle cose di fede” e incredulo sulla presenza reale di Cristo nell’eucarestia. Egli dichiarava apertamente: “Il pane che mangiamo non è realmente il Corpo di Cristo, ma un simbolo…Se non accade un fatto a convincermi, non mi persuaderò”. Due confratelli, udendo ciò, decisero allora di portarlo in chiesa di domenica e durante la messa, quando sull’altare fu deposto il pane del sacrificio, apparve al posto dell’ostia un Gesù Bambino. 


Miracolo Eucaristico di Scete

In quello stesso istante vide scendere dal cielo un Angelo del Signore con una spada “che tagliò il fanciullo in piccoli pezzi e il sangue che ne sgorgava si raccolse nel calice eucaristico”. Così “anche il sacerdote ruppe il pane in piccoli pezzi”. Poi quando i tre monaci si avvicinarono per ricevere i santi doni, al vecchio venne offerta della carne sanguinante. A quella vista però il monaco dubbioso fu colto da terrore e gridò: “Credo, o Signore, che il pane è il tuo Corpo e il calice il tuo Sangue!”. E subito la carne che aveva in mano ritornò pane, secondo il mistero, ed egli si comunicò ringraziando Dio. 

Il racconto, scritto in chiave anti-eretica, servì a confutare la dottrina manichea del Docetismo(2), fondata in Alessandria d’Egitto dal teologo Basilide (II secolo), il quale negava l’umanità di Gesù. La storia di quell’anziano monaco, ben conosciuta in tutto il mondo cristiano, rispondeva chiaramente a coloro che ritenevano il corpo di Cristo di natura angelica e la sua Passione una realtà solo apparente, rendendo così senza fondamento alcuno la verità dell’eucarestia. 

Quel piccolo disco bianco dell’ostia, innalzato dal sacerdote, richiamava con forza non solo il dogma della transustanziazione, sancito con il IV Concilio Lateranense del 1215, ma anche l’antico conflitto contro tutte le false dottrine che a partire dalla Chiesa d’Oriente si era allargato a tutta la cristianità. In quel tempo persino la leggenda cristiana del santo Graal, in cui confluirono racconti di messe miracolose dell’ostia-fanciullo, si adoperò per difendere la natura sovrannaturale e divina dell’eucarestia. Nel celebre romanzo del clerico Boron, entrato prepotentemente nell’immaginario popolare, si narrava del cavaliere Galaad che partecipando a un banchetto con i suoi undici compagni -simbolo degli apostoli- assistette alla meravigliosa apparizione del Graal, ovvero il calice dell’Ultima Cena, da cui vide uscire un’ostia, mentre dal cielo discendeva “una figura simile a un bambino dal corpo tutto nudo e sanguinate che entra nel pane e lo trasforma in una figura umana, la quale distribuisce ai presenti l’eucarestia”. 


Manoscritto sulla leggenda del Graal

Nella Cappella del Corporale, teologia e letteratura, si fondevano dunque in un unico e affascinante racconto attingendo a quel mondo mistico-visionario che fece grande il medioevo. Un mondo permeato dalla mirabile unità tra dogma e leggenda e che, attraverso la forza dei suoi simboli, non si contrappose mai all’ortodossia dottrinale della Chiesa, anzi la confermò straordinariamente. Davanti all’ostia adorata sull’altare o custodita nel suo tabernacolo, i fedeli potevano passare dal dubbio alla visione, contemplando nella mente e nello spirito la realtà invisibile del sacramento che si disvelava ai credenti con l’immagine del piccolo Cristo, manifestatosi nell’eucarestia. Celebrare la Cena del Signore significava infatti scorgere, dietro l’apparenza del mondo materiale, la presenza di quel Dio che nascosto nell’ostia consacrata “è carne e sembra pane, è sangue e sembra vino, è uno e sembrano due”. Chi varcava la soglia della cappella nell’attesa di celebrare la santa messa aveva ben presente le apparizioni di Cristo nell’eucarestia narrate lungo i secoli e che, simili alle meravigliose liturgie del Graal, testimoniavano come “al suono della voce del sacerdote" affermavano San Gregorio Magno (540-604) e Germano da Parigi (490-576) - le cose invisibili e celesti discendevano sull’altare, accompagnate da una processione angelica, e “si mescolavano” alle realtà visibili del pane e del vino "per diventare una sola cosa”.

Lo sguardo della comunità cristiana andava allora al racconto dei racconti, e cioè a quella prima eucarestia raffigurata nell’arco d’ingresso della cappella, proprio di fronte all’altare. Qui i fedeli potevano immedesimarsi con gli apostoli quando si riunirono per sedere insieme al loro maestro e celebrare l’Ultima Cena, dove sarebbe avvenuto il primo miracolo della transustanziazione. Nella notte in cui stava per passare da questo mondo al Padre, dopo aver recitato sul pane la benedizione, Cristo trasmise l’essenza stessa dell’eucarestia con cui promise di rimanere sempre in mezzo agli uomini fino alla fine del mondo: infatti “mentre mangiavano prese il pane… lo spezzò e lo diede loro dicendo: Prendete, questo è il mio corpo”(Marco 14,22). 


Ultima Cena

Così, in ogni santa messa, quel corpo del Signore continuava a versare il suo sangue nel calice del vino; un corpo che innalzato dal sacerdote veniva poi distribuito, passando dall’altare alla loro bocca dei fedeli, e cioè dal mondo sacro a quello profano. Era il pane di Cristo -ricordava papa Urbano IV nella Bolla Transiturs del 1264- che “si prende ma non si consuma” e che “non si tramuta affatto in chi lo mangia”, perché “se ricevuto degnamente, è chi lo riceve che diventa ad esso conforme”. Era il nutrimento celeste donato da Dio per confortare l’anima, infondere vigore e saggezza, guarire l’uomo dai mali corporali e spirituali e difenderlo dalle insidie del male; era il pane degli angeli che quando si mangia si viene da esso mangiati e “dal quale spira una soave fragranza, come se vi fossero state sparse sopra tutte le essenze del mondo”. 

(fine terza parte)

Prima parte: Giuseppe d’Arimatea, una storia mai raccontata
Seconda parte: La Cappella del Corporale, tra dogma e leggenda

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