Giuseppe d'Arimatea: una storia mai raccontata

Cappella del Corporale, altare
Non sono molte le chiese, come il Duomo di Orvieto, ad avere un così rigoroso ed originale legame fra arte e liturgia. Tutta l’arte è sacra, poiché intuizione del divino, ma quella delle chiese è arte liturgica. Chi, ancora oggi, entra nella cattedrale può facilmente immaginare le antiche processioni, quando dal sagrato avanzava un corteo di fedeli in preghiera verso l’altare. Le scene della vita terrena e celeste della Vergine Maria, narrate sulla facciata e nell’abside, celebravano la madre di Dio, che dall’alto della sua gloria intercedeva per tutti i credenti guidandoli al senso ultimo dell’esistenza umana: il Paradiso.
Ma per giungere alla beatitudine bisognava passare per il dramma della Passione di Cristo, rappresentato nella cappella del Corporale. Davanti alla Crocifissione, i fedeli erano invitati ad avvicinarsi a Dio, fissando il momento culminante della salvezza cristiana. Qui era possibile meditare la pietà cristiana degli ‘intimi’ di Gesù, che “con purezza di cuore e di coscienza”, accolsero il corpo di Cristo. Un sentimento candido, come il lenzuolo o sudario nel quale venne avvolto il Signore dopo la Passione. Tra loro si trova anche quel Giuseppe d’Arimatea raffigurato nella scena del sepolcro dietro l’altare. Un uomo giusto che aspettava il regno di Dio, raccontano i Vangeli, e che meritò un posto “non meno degno di rispetto e gratitudine” in confronto a quello della Madre di Dio.
Infatti se “Maria unse il santo corpo di Cristo con olio - affermava sant’Ambrogio - Giuseppe d’Arimatea lo profumò con aromi. L’una portò il Signore in grembo esortata all’obbedienza dall’angelo, l’altro fu mosso spontaneamente da un senso di giustizia”. Maria e Giuseppe d’Arimatea: dal ventre al sepolcro, dalla nascita alla morte, da Betlemme al Golgota, perché entrambi si presero cura del corpo del Signore nel primo e nell’ultimo atto della sua vita!
Cappella del Corporale, Deposizione
Già Innocenzo III (1198-1216) si era pronunciato su di lui, parlandone nel manuale liturgico “Il sacrosanto mistero dell’altare” (De sacro altaris mysterio). A rendergli onore fu dunque uno dei più grandi pontefici della storia, che lo ricordò insieme a Nicodemo, autorevole membro del Sinedrio. Tutti, in quel tempo, sapevano dei due discepoli ‘segreti’ di Gesù e del modo con cui, dopo la sua morte, manifestarono apertamente, senza paura dei Giudei, il loro amore per il Signore. Dopo aver “ottenuto da Pilato il corpo del Signore”, lo tolsero dalla croce e lo deposero nel sepolcro “non come un criminale, ma come era usanza dei Giudei seppellire un uomo importante ed esemplare” (Giovanni Crisostomo).
A sottolineare tutta l’importanza di Giuseppe e Nicodemo fu la liturgia della Chiesa con le parole dello stesso papa Innocenzo: “Sopraggiunge il diacono, che eleva l’offerta sopra l’altare, poi sia lui che il sacerdote la ripongono. E questo avviene perché sopraggiunsero Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo…”. Su di loro si pronunciarono anche numerosi esegeti, teologi e autori sacri del Medioevo. Ugolino di Prete Ilario non esitò perciò a ritrarli nella cappella del Corporale, realizzata verso la metà del ‘300, nel tempo in cui dietro ad ogni particolare era racchiuso il mistero di un mondo, quello della Passione del Signore che sconfisse il potere del male. Persino dalla Terra Santa provenivano preziose reliquie e racconti di miracoli eucaristici, come quello di Bolsena. Esso era custodito in quel “colossale reliquiario di pietra per il Santo Corporale”, la cattedrale di Orvieto, che qualcuno definì una “Gerusalemme traslata” (1).
Tra storia e leggenda, Ugolino, sotto la supervisione dei teologi domenicani allora residenti ad Orvieto, ritrasse la figura di Giuseppe che la spiritualità medioevale unì profondamente al mistero dell’eucarestia e di tutti i miracoli eucaristici, compreso quello di Bolsena, l’ultimo e il più grande dei prodigi, che permise alla Chiesa di proclamare ufficialmente nel 1264 la presenza di Cristo e della sua Passione nella celebrazione della santa messa. Chi entrava nella cappella e contemplava la scena della Deposizione (purtroppo oggi quasi del tutto nascosta dietro una statua settecentesca dell’Arcangelo Michele), si trovava a compiangere il corpo di Cristo, insieme a Maria, la Maddalena, il discepolo Giovanni e lo stesso Nicodemo.
E nello stesso tempo immedesimarsi con Giuseppe d’Arimatea, ritratto sulla destra, come in disparte, mentre stringe tra le mani il suo vaso. Egli -dichiarava San Giovanni Crisostomo (344-407) in una delle sue lettere - si acquistò il merito di aver ottenuto coraggiosamente il corpo di Cristo, quando “perfino Pietro e Giovanni, che fu testimone oculare della morte di Gesù, non fece nulla di simile”.
Cappella del Corporale, Giuseppe d’Arimatea, particolare
Molti secoli più tardi, il grande teologo Anselmo d’Aosta(1033-1109) scrisse di Giuseppe d’Arimatea, attingendo a quel vangelo di Nicodemo che tanto aveva pervaso l’immaginario popolare del tempo: “Dopo aver estratti i chiodi e liberato le mani e i piedi (di Gesù)”, Giuseppe depose nel “proprio sepolcro nuovo” il corpo del Signore, raccogliendo in un vaso di pregevole fattura il sangue della Passione “fuoriuscito dalle ferite delle mani e dai piedi…e anche lo stesso sangue misto ad acqua, che era fuoriuscito dal fianco destro”; e tutto ciò avvenne prima di chiudere la tomba con una grande pietra. Così il racconto apocrifo di Giuseppe non tardò a diffondersi fin dai primi secoli del cristianesimo, entrando a pieno titolo nelle liturgie d’Oriente e d’Occidente con lo scopo di illuminare ed esaltare il significato eucaristico.
Per questo - si legge nel Liber pontificalis romano del XII secolo - al momento dell’elevazione dell’ostia si ricordava il coraggio di Giuseppe che “deponeva il Signore dalla croce e lo seppelliva nel sepolcro”; poi accostando l’ostia al calice, si ricordava anche l’amore di Giuseppe che in un vaso “raccoglieva il sangue colato dalle piaghe di Cristo”. E infine, quando il sacerdote “riponeva il corporale sull’imboccatura del calice”, si ricordava quando il discepolo “faceva rotolare una grande pietra sulla porta del sepolcro”, preservando così tutta la soavità del corpo del Signore. Un legame così stretto, quello tra il discepolo e il Sacramento, che ispirò l’arte e la letteratura epico-cavalleresca del Medioevo, in particolare il celebre romanzo “Giuseppe d’Arimatea” o “La storia del Graal”, scritto da Robert de Boron all’inizio del XIII secolo.
Nella leggenda, in cui confluivano tradizioni apocrife antiche e nuove, si narrava dell’apparizione di Cristo a Giuseppe d’Arimatea, rinchiuso in prigione con l’accusa di aver trafugato il corpo di Gesù; si narrava che, una notte, il Cristo consegnò al discepolo, sepolto vivo dai Giudei proprio nella stessa tomba dove il Risorto era stato seppellito, il vaso contenente il sangue della Passione. Riconoscendo quanto di nobile e di onorevole aveva fatto Giuseppe nel momento della Passione, gli disse: “Sappi che non verrà mai celebrato un rito eucaristico, senza che tu(Giuseppe) non venga ricordato”. Dal quel vaso Giuseppe traeva ogni giorno un’ostia che lo tenne in vita per molto tempo prima di essere liberatomiracolosamente. Proprio lì ricevette da Gesù la missione di custodire e difendere il prezioso vaso, nel suo lungo e periglioso viaggio ai confini della terra.
Cappella del Corporale, Crocifissione, particolare
Le immagini della cappella diventavano perciò le pagine di un libro dipinto sulle pareti, dove traspariva in filigrana la storia Giuseppe e del vaso miracoloso, simbolo dell’eucarestia. Nessuna meraviglia, quindi, se la figura di Giuseppe d’Arimatea trasmetteva ai fedeli sia il magistero della Chiesa, sia i significati della leggenda, che si compenetravano in un unico e affascinante racconto in cui veniva esaltato il ruolo preminente del discepolo durante la Passione:
“O Signore Iddio, che tramite Pilato hai voluto concedere il corpo adorabile del Tuo figlio Gesù, al beato Giuseppe d’Arimatea, uomo giusto che aspettava il Tuo regno: accetta per intercessione di questo Tuo stesso discepolo Giuseppe, lo spirito del Tuo diletto figlio Gesù; affinché Egli possa dirigerci sulla terra ed illuminarci nei cieli”(da un’antica orazione tratta dagli Acta Sanctorum). Grande onore agli Apostoli che amministrarono il corpo eucaristico del Signore, ma anche al venerabile Giuseppe d’Arimatea che, di fronte al mondo, fu ritenuto degno di custodire il corpo carnale di Gesù “preservandolo dalla corruzione della morte”.
Egli, in realtà, lo conservò nell’intimo del proprio cuore come nel segreto del sepolcro, portandolo dentro di sé in un vaso interiore, spirituale. Per questo - affermava il grande Beda il Venerabile - “più grande ancora è il suo merito presso Dio” al punto che, nell’anno 1585, il cardinale Baronio iscrisse il suo nome nel Martirologio(2): da allora, il 17 marzo di ogni anno, la Chiesa universale ricorda il discepolo e ciò fece per il Signore.
(fine prima parte)
NOTE:
(1) Dai “Quaderni medioevali” di F.Cardini.
(2) Nel Martirologio si fa riferimento a un catalogo del 1435, appartenente all’archivio della Basilica Vaticana, dove è riportata l’esistenza di “un reliquiario (fatto realizzare sotto il pontificato di Clemente VIII) a forma di braccio d’argento che tiene una tenaglia, nel quale è conservato il santo braccio di San Giuseppe d’Arimatea, nobile decurione, che depose dalla croce il corpo del nostro Salvatore".

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