cultura

Un altro punto di vista: il rischio di un'altra storia

venerdì 24 luglio 2009
di Mario Tosti, Presidente Istituto per la Storia Umbria contemporanea

da "Quotidiano umbro", 9 agosto 2009

Si è affermata negli ultimi decenni una tendenza, che è politica, ideologica e anche storiografica, a riscrivere la storia dell'Italia con­temporanea; numerosi sono stati i volumi editi che già nel titolo sottolineano questa volontà: l'altro Risorgimento, l'altra Resistenza, per ricor­dare due degli eventi sui quali maggiormente si è concentrata l'attività di revisione storica. Un'altra storia, dunque, che spesso ha contribui­to a portare alla luce verità lungamente negate ma altrettanto sovente ha messo in campo un uso politico della storia, fina­lizzato a favorire un mutamento dell'im­maginario storico e culturale dell'opinio­ne pubblica. Tutto questo collocato sullo scenario presente, che sembra assegnare agli studi storici una sfida molto precisa: la trasformabilità della memoria e della storia in mercé dell'industria culturale.

Siamo di fronte, infatti, a un mutamento di ordine, innanzitutto economico, che imprime un carattere bulimico e compulsorio a quello che noi chiamiamo "re­visionismo". Le verità acclarate e gene­ralmente accertate, e accertate in sede storica, sono merci che diventano rapida­mente obsolete nel mercato culturale. Non si vendono facilmente, anzi non si vendono più: occorre perciò manipolar­le, renderle nuove, sensazionali, per tro­var loro nuovi compratori. In questo sen­so, un caso emblematico è rappresentato dai volumi di Giampaolo Pansa che con la sua scrittura suadente, con la sua chia­rezza espositiva e un uso onesto delle fonti, è riuscito a portare al grande pub­blico fatti che da sempre gli storici spe­cialistici conoscevano, ma che la storio­grafia ufficiale aveva omesso. Così il "giornalista-storico revisionista" è stato capace di rompere il silenzio, di riporta­re alla ribalta dolori e sofferenze seppelli­te e dimenticate, elevandosi al ruolo di vendicatore. Anche in Umbria, un certo autoritarismo culturale, ha fatto sì che, relativamente alla Resistenza e al ruolo dei partigiani, per lungo tempo, abbia prevalso una ricostruzione unilaterale, che ha privilegiato il mito rispetto alla storia. Convenienza e retorica hanno a volte sotterrato, insieme ai cadaveri, mol­te scomode verità.

Oggi, per fortuna, le cose sono diverse e tutta una serie di pubblicazioni, portate avanti anche dal­l'Istituto per la storia dell'Umbria con­temporanea, stanno mettendo in chiaro il ruolo militare della Resistenza, la composizione delle bande partigiane e l'apporto problematico degli slavi, fuggiti do­po l'8 settembre 1943 dai campi di inter­namento, come quello di Colfiorito, gli eccessi di alcune frange della lotta clan­destina nei confronti della popolazione civile e dei fascisti repubblichini.

Ora, affermato che il male è qualcosa di uma­no che prescinde dagli schieramenti po­stumi, il rischio concreto di chi si accinge, anche animato da serie intenzioni di "revisione", a scrivere "un'altra storia" è quello alla fine di accomunare fascismo e antifascismo, considerandoli come op­posti eccessi. Il risultato finale di tale operazione di riscrittura è quello di aval­lare un'interpretazione storica pacificatrice, per cui il carattere autentico del­l'identità nazionale sarebbe rappresenta­to da quella parte maggiore del popolo italiano che avrebbe assistito da estra­neo, o con atteggiamenti di puro soccor­so umanitario, agli eventi, in attesa del loro sviluppo. Secondo questa visione i combattenti sui due fronti, fascista e anti­fascista, rappresenterebbero una devia­zione estranea alla nostra tradizione, che resta essenzialmente moderata, ostile agli eccessi, aperta a ogni aggiustamento e garantita dalla presenza stabilizzatrice di istituzioni secolari, come la Chiesa. All'antifascismo, alla Resistenza, quali fattori costitutivi delle istituzioni e della vita repubblicana, verrebbe così a sosti­tuirsi la categoria dell'attendismo, virtù di saggezza pratica, invece che vizio di apatia, molto più conforme al genio proprio degli italiani, che sempre tra gli opposti eccessi hanno preferito procede­re diritti.

Certamente oggi l'idea di una guerra civile obbligatoria spaventa, ma allora era dettata dall'indignazione mora­le; basta leggere, per esempio, le lettere dei condannanti a morte della Resisten­za. Da esse emerge un'altra Italia. Un Paese di uomini e donne appartenenti a tutte le età e a ogni classe sociale, consa­pevoli del dovere della libertà e del prez­zo che essa in momenti estremi compor­ta. Del resto, già nel 1947, uno dei più grandi scrittori del Novecento, Italo Calvino, nel suo primo romanzo, Il sentiero dei nidi di ragno, nel quale racconta pro­babilmente la sua esperienza di venten­ne che per sfuggire alla leva della Repub­blica di Salò, insieme al fratello, sale in montagna ed entra nella seconda divisio­ne d'assalto "Garibaldi", rinuncia a qualsiasi tentazione di rappresentazione cele­brativa e trionfalistica della Resistenza. I suoi protagonisti sono individui "margi­nali", talvolta "irregolari" e tutt'altro che contraddistinti da una "coscienza di clas­se" o da una definita "coscienza politica". Per Calvino, la Resistenza diventa una sottile linea di confine, lungo la qua­le scegliere di stare di qua o di là e la scelta non risponde a un processo chia­ro, razionale; entrarono in gioco, nel­l'una e nell'altra parte, sentimenti simi­li: ci voleva nulla per trovarsi da una parte o dall'altra, scrive Calvino.

Allora nasce il problema: cosa distingue, nono­stante l'affinità eventuale, gli uni dagli altri e rende la valutazione drasticamen­te e insuperabilmente contrapposta? A dividere gli uni dagli altri c'è "la storia", che dà un senso giusto, positivo, alla furia degli uni e ricaccia gli altri dalla parte sbagliata di coloro che volevano riprodurre l'oppressione e la schiavitù. Se si dimentica questo si perde il senso della storia, che non può essere ridotta ad una somma di casi individuali, ognu­no preso per sé e tutti giustificabili. Il senso della storia è che ai partigiani dob­biamo quello che non avevamo: libertà e giustizia, mentre se avessero avuto ragio­ne gli altri ce ne avrebbero ancora più brutalmente privato. Se la distinzione tra le due posizioni non è mantenuta si scrive un'altra storia, ma si legge male la storia del passato.


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