cultura
Le radio libere degli anni '70 rievocate a Venti Ascensionali: Radio Alice
domenica 16 ottobre 2005
di Davide Pompei
“Certo eravamo giovani, eravamo arroganti, eravamo ridicoli, eravamo eccessivi, eravamo avventati. Ma avevamo ragione” direbbe Hoffmann. E gli otto ragazzi che nel febbraio del ‘76 diedero vita alla bolognese Radio Alice erano tutto questo e molto di più. Svaniti i dadaismi, sopite le sognanti ambizioni, riposti i giovanili ideali, oggi ognuno ha preso la sua strada. Restano, però, i ricordi di quegli anni e l’accattivante documentario di Guido Chiesa “Alice è in Paradiso”, già visto al Torino Film Festival nel 2002 e presentato sabato pomeriggio nell’ambito di Venti Ascensionali, alla presenza del giornalista e animatore Paolo Ricci, “uno di loro”.
Il documentario tenta di rimettere insieme le voci dei protagonisti di quell’esperienza, avvalendosi di materiali di repertorio e interviste, raccontando una parabola d’altri tempi e offrendo uno spaccato sulla Bologna degli anni ‘70, quella delle radio libere e delle lotte studentesche, dei rabbiosi “vogliamo” e delle utopie collettive. Un periodo fatto più di albe che di mezzogiorno, anni di progetti e di impegno politico. All’interno di Radio Alice coesistevano un’anima eticamente intransigente e contro-informativa e una poetico-libertaria, c’era fantasia, voglia di fare, rifiuto del lavoro salariato, libertà sessuale e provocazioni culturali, il tumulto di quegli anni e la non chiarezza delle idee. Fumosi conciliaboli notturni, poi si salì sui tetti e nelle mansarde e si lanciarono i primi segnali verso il mondo in ascolto.
La radio, priva di una vera e propria redazione e di un rigido palinsesto, fu un esperimento di comunicazione unico, si proponeva come obiettivo la spontaneità e il “dare voce a chi voce non ha mai avuto”: senza filtro, con i microfoni aperti alla gente, alle istanze più diverse, portando un cambiamento radicale nell’informazione e dicendo “la verità”. Anche se poi la sua utilità stava proprio in una non-concreta-utilità, in quel lento ciondolare fancazzistico che solo i giovani possiedono. Vi passavano comunicati di ogni tipo, letture impegnate e monologhi farneticanti che mettevano in scena la lotta e la critica al lavoro, ma anche messaggi qualsiasi senza troppa serietà. Quando i telefonini erano ancora fantascienza, le mamme la ascoltavano per sapere dove erano i figli. Usava un linguaggio contestatore e provocatorio, sboccato e senza reticenze, senza freni, che oggi non darebbe certo luogo allo scandalo che suscitò allora tra l’aperta, ma compassata popolazione emiliana.
“Dopo molti mesi di fantasiosa gestazione nell’estate del ’75 si era andato definendo un progetto all’interno del movimento – ha detto Ricci – eravamo un gruppo di ragazzi nati nei primi anni ‘50 che voleva avere un canale di comunicazione alternativo al monopolio RAI, per partecipare in modo attivo alla vita sociale e culturale dell’epoca o semplicemente per dare un senso alla nostra. Dopo un gennaio di prove tecniche, a mezzanotte di un giorno di febbraio del ’76 iniziarono le trasmissioni ufficiali di Radio Alice, un fenomeno molto nuovo all’interno di quel decennio iniziato nel ’68. Il piccolo gruppo era omogeneo e nasceva in risposta al movimento femminista, non ce ne fregava niente di nulla, o meglio alternavamo un forte volere al bivacco generale, forse c’era in comune un certo piacere intellettuale per la lettura, ma non imponevamo nulla, era una grande piazza aperta a tutti, un’onda musicale in cui entravano parole decontestualizzate e decontestualizzanti”.
“Ci dicemmo con coraggio “è fatta!” e i primi tre mesi la nostra creatura ebbe un successo enorme, ma dovemmo poi apprendere, con lucida consapevolezza, che tutto quello che avevamo confusamente costruito era arrivato alla fine. E la conclusione fu trionfale! Non un lento declino, ma la chiusura da parte della polizia, perché la radio si rifiutava di diventare democratica lavorando con le istituzioni. Vivevamo di un’onda rivoluzionaria, col pensiero di trasformare la società, cambiare il mondo, e Radio Alice è stata il canto del cigno di questa grande onda, ma anche una bella trovata che poi è svanita. In questo siamo stati pessimi profeti, la storia ci ha travolti. Ricordo che io dicevo “Non chiudiamo, facciamo il funerale a Radio Alice”. Il 12 marzo ’77, infatti, la polizia irruppe nella sede della radio, che fu chiusa con l’accusa di aver diretto gli scontri via etere. Scontri nel quale un carabiniere uccise uno studente (la storia si ripete...) e per la prima volta nell’Italia Repubblicana una testata d’informazione venne chiusa dalle forze dell’ordine. Il problema della violenza Radio Alice lo sentiva nascere, ma non si immaginava il mondo che sarebbe venuto. Dal punto di vista generazionale la quantità di energia di quegli anni è abbastanza unica, figlia dei tempi e di quell’Italietta pregna di storia, ma anche di quel forte sentire dei giovani, da vivere e raccontare.
Oggi senza acquistare a caro prezzo una concessione non si può trasmettere, è impossibile ormai fare una radio di quartiere con pochi soldi. Qualcuno ha deciso di tentare comunque e di piazzarsi con il suo trasmettitore da pochi watt in qualche frequenza lasciata miracolosamente libera dai network; altri, sempre di più, stanno partendo con le loro radio on-line, con costi quasi zero, ma anche scarsa fruizione. Allora era più facile dar vita a una radio, ma oggi cosa si può (o si deve) salvare di quest’esperienza di libertà praticata?
“Nel ‘76 – continua Ricci – non avevamo idea di dove volevamo andare, con la maturità ragiono in un altro modo; è stata bella, ma non va rimpianta, fa riferimento a un’epoca che ormai è finita, la mia generazione è ora entrata in una nuova fase storica. Un’esperienza come questa non può tornare, noi eravamo dei catalizzatori perché intorno avevamo il vuoto, coprire 24 ore su 24 in modo originale è veramente difficile. Erano altri anni, fino al ’77 le case erano sempre aperte, poi cambia la città e il modo di farla. Libertà e tolleranza hanno breve durata, se prima esistevano utopie collettive, oggi ci sono fatti individuali. La qualità della vita culturale nonostante le tecnologie sembra ora peggiorata, Internet è di una solitudine allucinante. Prima era come se la radio avesse un’identità a prescindere dai movimenti, non c’erano i singoli gruppi, ma le masse di gente”.
Radio Alice “è stata l’occasione per qualche cosa di poetico”, nasceva prima di tutto dal bisogno di vita e dalla speranza di viverla meglio e sposava l’impegno politico con poetica trasognatezza. Si sbeffeggiava l’impegno, ma si lavorava nel concreto, confrontandosi con la famiglia, i rapporti, guardando alla società senza miopia, ma con la speranza e il desiderio di capirci qualcosa. Il desiderio (tema di Venti Ascensionali) di Paolo Ricci è che il documentario apra domande e aiuti a comprendere il presente. La storia non è il compimento riuscito, ma un tentativo. Allora era facile tentare, oggi serve più coraggio, bisogna riconsiderare tutto, sentirci dentro la storia con responsabilità piccole e grandi. Non serve rifugiarsi in un passato irripetibile per evitare di parlare ‘davvero’ del presente.
Simbolo di un’epoca, fabbrica dei sogni o demonico covo di drogati e fricchettoni, Radio Alice, volendo assumere una linea politica (in quegli anni era inevitabile), cominciò a scadere. La sua fine è un lutto non elaborato per molti, mai finita per altri. Una ferita ancora aperta e mai esaminata a fondo, mai rimarginata: di chi voleva musica, felicità e libertà in terra, senza aspettare il Paradiso in cielo.
Il documentario tenta di rimettere insieme le voci dei protagonisti di quell’esperienza, avvalendosi di materiali di repertorio e interviste, raccontando una parabola d’altri tempi e offrendo uno spaccato sulla Bologna degli anni ‘70, quella delle radio libere e delle lotte studentesche, dei rabbiosi “vogliamo” e delle utopie collettive. Un periodo fatto più di albe che di mezzogiorno, anni di progetti e di impegno politico. All’interno di Radio Alice coesistevano un’anima eticamente intransigente e contro-informativa e una poetico-libertaria, c’era fantasia, voglia di fare, rifiuto del lavoro salariato, libertà sessuale e provocazioni culturali, il tumulto di quegli anni e la non chiarezza delle idee. Fumosi conciliaboli notturni, poi si salì sui tetti e nelle mansarde e si lanciarono i primi segnali verso il mondo in ascolto.
La radio, priva di una vera e propria redazione e di un rigido palinsesto, fu un esperimento di comunicazione unico, si proponeva come obiettivo la spontaneità e il “dare voce a chi voce non ha mai avuto”: senza filtro, con i microfoni aperti alla gente, alle istanze più diverse, portando un cambiamento radicale nell’informazione e dicendo “la verità”. Anche se poi la sua utilità stava proprio in una non-concreta-utilità, in quel lento ciondolare fancazzistico che solo i giovani possiedono. Vi passavano comunicati di ogni tipo, letture impegnate e monologhi farneticanti che mettevano in scena la lotta e la critica al lavoro, ma anche messaggi qualsiasi senza troppa serietà. Quando i telefonini erano ancora fantascienza, le mamme la ascoltavano per sapere dove erano i figli. Usava un linguaggio contestatore e provocatorio, sboccato e senza reticenze, senza freni, che oggi non darebbe certo luogo allo scandalo che suscitò allora tra l’aperta, ma compassata popolazione emiliana.
“Dopo molti mesi di fantasiosa gestazione nell’estate del ’75 si era andato definendo un progetto all’interno del movimento – ha detto Ricci – eravamo un gruppo di ragazzi nati nei primi anni ‘50 che voleva avere un canale di comunicazione alternativo al monopolio RAI, per partecipare in modo attivo alla vita sociale e culturale dell’epoca o semplicemente per dare un senso alla nostra. Dopo un gennaio di prove tecniche, a mezzanotte di un giorno di febbraio del ’76 iniziarono le trasmissioni ufficiali di Radio Alice, un fenomeno molto nuovo all’interno di quel decennio iniziato nel ’68. Il piccolo gruppo era omogeneo e nasceva in risposta al movimento femminista, non ce ne fregava niente di nulla, o meglio alternavamo un forte volere al bivacco generale, forse c’era in comune un certo piacere intellettuale per la lettura, ma non imponevamo nulla, era una grande piazza aperta a tutti, un’onda musicale in cui entravano parole decontestualizzate e decontestualizzanti”.
“Ci dicemmo con coraggio “è fatta!” e i primi tre mesi la nostra creatura ebbe un successo enorme, ma dovemmo poi apprendere, con lucida consapevolezza, che tutto quello che avevamo confusamente costruito era arrivato alla fine. E la conclusione fu trionfale! Non un lento declino, ma la chiusura da parte della polizia, perché la radio si rifiutava di diventare democratica lavorando con le istituzioni. Vivevamo di un’onda rivoluzionaria, col pensiero di trasformare la società, cambiare il mondo, e Radio Alice è stata il canto del cigno di questa grande onda, ma anche una bella trovata che poi è svanita. In questo siamo stati pessimi profeti, la storia ci ha travolti. Ricordo che io dicevo “Non chiudiamo, facciamo il funerale a Radio Alice”. Il 12 marzo ’77, infatti, la polizia irruppe nella sede della radio, che fu chiusa con l’accusa di aver diretto gli scontri via etere. Scontri nel quale un carabiniere uccise uno studente (la storia si ripete...) e per la prima volta nell’Italia Repubblicana una testata d’informazione venne chiusa dalle forze dell’ordine. Il problema della violenza Radio Alice lo sentiva nascere, ma non si immaginava il mondo che sarebbe venuto. Dal punto di vista generazionale la quantità di energia di quegli anni è abbastanza unica, figlia dei tempi e di quell’Italietta pregna di storia, ma anche di quel forte sentire dei giovani, da vivere e raccontare.
Oggi senza acquistare a caro prezzo una concessione non si può trasmettere, è impossibile ormai fare una radio di quartiere con pochi soldi. Qualcuno ha deciso di tentare comunque e di piazzarsi con il suo trasmettitore da pochi watt in qualche frequenza lasciata miracolosamente libera dai network; altri, sempre di più, stanno partendo con le loro radio on-line, con costi quasi zero, ma anche scarsa fruizione. Allora era più facile dar vita a una radio, ma oggi cosa si può (o si deve) salvare di quest’esperienza di libertà praticata?
“Nel ‘76 – continua Ricci – non avevamo idea di dove volevamo andare, con la maturità ragiono in un altro modo; è stata bella, ma non va rimpianta, fa riferimento a un’epoca che ormai è finita, la mia generazione è ora entrata in una nuova fase storica. Un’esperienza come questa non può tornare, noi eravamo dei catalizzatori perché intorno avevamo il vuoto, coprire 24 ore su 24 in modo originale è veramente difficile. Erano altri anni, fino al ’77 le case erano sempre aperte, poi cambia la città e il modo di farla. Libertà e tolleranza hanno breve durata, se prima esistevano utopie collettive, oggi ci sono fatti individuali. La qualità della vita culturale nonostante le tecnologie sembra ora peggiorata, Internet è di una solitudine allucinante. Prima era come se la radio avesse un’identità a prescindere dai movimenti, non c’erano i singoli gruppi, ma le masse di gente”.
Radio Alice “è stata l’occasione per qualche cosa di poetico”, nasceva prima di tutto dal bisogno di vita e dalla speranza di viverla meglio e sposava l’impegno politico con poetica trasognatezza. Si sbeffeggiava l’impegno, ma si lavorava nel concreto, confrontandosi con la famiglia, i rapporti, guardando alla società senza miopia, ma con la speranza e il desiderio di capirci qualcosa. Il desiderio (tema di Venti Ascensionali) di Paolo Ricci è che il documentario apra domande e aiuti a comprendere il presente. La storia non è il compimento riuscito, ma un tentativo. Allora era facile tentare, oggi serve più coraggio, bisogna riconsiderare tutto, sentirci dentro la storia con responsabilità piccole e grandi. Non serve rifugiarsi in un passato irripetibile per evitare di parlare ‘davvero’ del presente.
Simbolo di un’epoca, fabbrica dei sogni o demonico covo di drogati e fricchettoni, Radio Alice, volendo assumere una linea politica (in quegli anni era inevitabile), cominciò a scadere. La sua fine è un lutto non elaborato per molti, mai finita per altri. Una ferita ancora aperta e mai esaminata a fondo, mai rimarginata: di chi voleva musica, felicità e libertà in terra, senza aspettare il Paradiso in cielo.
E c'era anche Radio Orvieto

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