costume

La (non)tradizione del Carnevale orvietano

venerdì 24 febbraio 2006
di Davide Pompei
Iniziato lo scorso 17 gennaio, il Carnevale 2006 termina il 28 febbraio. Sebbene i suoi festeggiamenti non rientrino in una tradizione particolarmente radicata sul territorio umbro, un po’ in tutta la regione è possibile trovare manifestazioni con sfilate di carri allegorici, esibizione di maschere e costumi tipici. Nella provincia di Terni, le iniziative più colorate sono quelle di Montecastrilli e Guardea nelle ultime due domeniche di Carnevale, ma anche a Foligno in località S. Eraclio e Acquasparta. Il 26 Febbraio, poi, la piazza di Città di Castello diventa un teatro all’aperto con maschere, giochi e musica. Insomma coriandoli a volontà e sfiziosissimi dolci: gli struffoli perugini, carichi di miele, zucchero e frutta candita, le più comuni frittelle ed ovviamente frappe e castagnole. Altra tipica ricetta umbra (erroneamente considerata abruzzese) è la cicerchiata, realizzata con palline di pasta avvolte nel miele profumato all’arancia, il tutto guarnito con canditi e confetti. Lontano dagli sfarzi veneziani o dai caotici carri di Viareggio, il Carnevale sulla Rupe ha ben poco dei colori di Rio. Esistono piccole iniziative, qua e là, come le feste per i bambini o le cene danzanti organizzate dalla Croce Rossa, ma nella maggioranza dei casi i festeggiamenti si svolgono in modo privato, in casa o nelle scuole. La non-tradizione carnevalesca, o meglio l’abitudine a non festeggiare eccessivamente il Carnevale ad Orvieto, probabilmente è un retaggio culturale proveniente dalla storia della nostra città. Fu il nobile Podestà Pietro Parenzo, nel lontano febbraio 1199, forte dell’appoggio di Papa Innocenzo III, a cominciare la sua lotta all’eresia abolendo, tra le altre cose, i giochi di Carnevale, che troppo spesso finivano nel sangue. Molti infatti erano quelli che, avvolti nella notte e celati da ingannevoli maschere, consumavano le più atroci barbarie. Per questa ragione, il primo giorno di Quaresima scoppiò una sommossa di protesta per rivendicare i divertimenti negati. Nel tardo medioevo il travestimento e le maschere erano assai diffusi nei carnevali urbani, e specialmente nelle corti, dove assumevano un significato poetico. L’utilizzo della maschera tende ad esorcizzare e schernire figure gerarchiche, caricando vizi e difetti degli uomini, rinegoziandone l’identità. L’origine latina del termine Carnevale ha come concetto la privazione della carne e designa i giorni che precedono la Quaresima, il principale periodo di penitenza del cristianesimo. Le sue origini, però, affondano le radici nelle antiche usanze pagane come i saturnali e i lupercali. Dopo i tentativi di cristianizzazione a opera di moralizzatori come il Savonarola, sia la Controriforma, sia le Chiese cercheranno di sopprimere questa festa decisamente troppo pagana. Durante i secoli, il Carnevale, ha stimolato la nascita di celebrazioni in forma di combattimento rituale, in cui venivano evidenziate le lotte fra varie parti di una stessa città (quartieri e rioni, come ancor oggi avviene ad esempio nella celebre battaglia delle arance di Ivrea), o fra classi sociali diverse dei cittadini. Così durante l’antico Carnevale prendevano piede battaglie fra circoscrizioni cittadine in cui i gruppi provenienti da tutta la popolazione si affrontavano a colpi di sassi e bastoni, oggi sostituiti da manganelli di plastica. Fra i nobili si organizzavano giochi di origine cortese dov’era importante dimostrare la propria prodezza nell’utilizzo delle armi. Insomma, epurato di tanti vincoli storici, il Carnevale resta un’esplosione di colori, di gioia e “di lecita follia”. Prima che le Winx vincessero sulle damine, che i lottatori di wrestling mettessero a tappeto il caro vecchio Arlecchino e che la schiuma soppiantasse le stelle filanti, il Carnevale aveva un altro sapore. Non occorre una pregiata sartoria teatrale dove affittare ingombranti costumi settecenteschi, il bello del Carnevale è quello di frugare tra i vecchi vestiti di mamma e papà, tuffarsi in un baule ed uscirne vestito da cow-boy o da fata. Farsi un costume da soli, grandi e piccini insieme, è un gioco divertente ricco di creatività. Stoffe povere e carte semplici possono ancora trasformare un bambino in Zorro. Perché perdere questa bella abitudine?

Un Carnevale di molti anni fa nei ricordi di Zaira Marchesini

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