cultura

Nessuna rassicurazione al Mancinelli dai classici di Francesco Montanari

sabato 12 novembre 2022
di Livia Di Schino

Tutti sui banchi di scuola, dopo il suono della campanella, ecco avvicinarsi un’inaspettata interrogazione: Francesco Montanari, venerdì 11 novembre al Teatro Mancinelli di Orvieto, ha interrogato il suo pubblico (e se stesso) sulle opere classiche, sulla loro importanza e su come mai, in quella selezione che caratterizza la memoria individuale ma anche collettiva, fossero stati proprio loro i "prescelti". Montanari non dà rassicurazioni, tantomeno risposte al suo pubblico che ha ripercorso, attraverso le sue parole, la rivisitazione del testo di Italo Calvino (prima articolo e poi pubblicazione) "Perché leggere i classici", vestendo alla fine i panni di Eco, Umberto Eco. 

Tra ironico, provocatorio e reale tutto si è consumato - sotto l’attenta regia di Davide Sacco - tra l’incomunicabilità scenica di Francesco Montanari e Riccardo Sinibaldi. Due modi complementari di approcciarsi all’arte: uno più accademico e impostato e l’altro basata sul coinvolgimento e il confronto con le persone e sul dialogo con l’opera e il suo autore. Ciò in un percorso di crescita che non permette mai la “rilettura” di un volume, in quanto a poggiarsi sulle medesime parole sono sempre occhi nuovi.

Una scenografia essenziale: alcuni libri sul bordo del palco - aperti, chiusi, sparsi o accatastati (nel quale un appassionato lettore può rivedersi) - ma che, come se tracimassero in platea, trovavano spazio anche sulle scale poste tra il pubblico e gli attori. Scale che si sono trasformate in un concreto ponte, artifizio di metateatro, quando Montanari ha chiesto a "Nic", spontaneo diminutivo per un ragazzo seduto in prima fila coinvolto in un botta e risposta con l’artista, di essere raggiunto sul palco per introdurre un’ospite in sala: Siri. Una voce, che ha bruciato le riflessioni dei presenti sul tempo nel trovare subito la definizione del termine kafkiano. Da una parte l’immediatezza e la semplificazione delle macchine, dall’altra i tempi umani del ragionamento mossi dal desiderio di scoperta da soddisfare con una progressiva ed articolata ricerca. 

Perché la scelta di portare in scena Italo Calvino?

"Parafrasando qualcosa già detto da Umberto Eco, per passare un messaggio importante si rischia la pedanteria. Sono un grande amante di Calvino - afferma Montanari subito dopo lo spettacolo, mentre aspira il fumo di una sigaretta che si è appena fatto - perché è stato il primo ad usare la leggerezza per far arrivare i messaggi che voleva". 

I classici cosa hanno rappresentato nella sua vita?

"La verità è che oggi scrivono tutti e questo non è negativo. Tutti noi abbiamo letture che ci colpiscono di più o di meno e poi - dopo un attimo di riflessione - scrivere è terapeutico. Nei classici la maestria sta nella scrittura, ma non in quella ostentata, nel tecnicismo verbale e verboso. I classici arrivano all’essenza, veicolano l’essenza". 

In concreto?

"La paura - recita Montanari -, la paura domina questi ricordi. Un'enorme atroce immortale paura": sono pazzo di Philip Roth e parole come queste lanciano in un contesto. Boom". 

Realtà e teatro, anche stasera ha giocato un ruolo importante il metateatro…

"Io e Davide (Sacco, ndr) crediamo nella poetica, nel teatro dell’umano. La nostra scelta è per un teatro realistico: vogliamo parlare dell’umano perché noi vogliamo che le persone vedano delle esperienze. Crediamo negli esseri viventi che stanno su un palco e che lottano per ottenere degli obiettivi. Io il mio, tu il tuo. Il nostro conflitto è contrapposizione. Solo attraverso l’esperienze lo spettatore viene messo in gioco. Non voglio dare risposte, ma ulteriori domande. Nessuna rassicurazione".

 

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