Una Cava di miseria e nobiltà nel nuovo libro di Gianni Marchesini "Ah, pipì!"

Da sole, le ultime pagine - quelle dedicate al processo vero e proprio, con tanto di aula giudiziaria eretta a curva dello stadio - valgono e sorreggono l'intero impianto narrativo. Per forza evocativa, resa visiva da dialoghi surreali per quanto iper-reali. E per quella attitudine - felice, non facile - all'ironia - meno immediata, ma più raffinata della comicità - suscitata da gesti ed espressioni nostrane che finisce per assicurare popolarità. E rassicurare il popolo che la cerca.
Per sedersi in quell'aula, davanti o dietro alla sbarra, parteggiando per uno o per l'altro dei due contendenti o, perché no, di chi è chiamato a difendere, stenografare o emettere sentenza, il lettore di "Ah, pipì!" - sugli scaffali di edicole e librerie di Orvieto e territorio per Zorro Edizioni da meno di un mese - deve però prima percorrere con stessa attenzione tutte le 136 pagine imbastite con sofisticata attitudine letteraria dalla penna di Gianni Marchesini che, ancora una volta, si rivela capace ed efficace non solo di suscitare risate attraverso il dialetto ma anche di acquarellare pagine di storia cittadina attingendo e intingendo nell'antropo-sociologia.
Lasciando le pettegole "Chiacchiere al mercato" di Piazza del Popolo, per dirigersi nel quartiere più antico della città. In quella Cava inesauribile di miseria economica e nobiltà d’animo. Tra gli aneddoti di chi s'arrabbia e s'arrabatta, rinvigoriti dai racconti di Giancarlo Beritognolo, Pier Luigi Leoni, Angelo Spanetta, Giuliano Stocchetti e poi Sergio Riccetti. A loro, va il ringraziamento dichiarato - esteso a Walter Leoni che anche stavolta firma l'accattivante disegno di copertina e a Valentina Settimi che cura grafica e impaginazione - dell'autore. A lui, Maria Luisa Salvadori riconosce "ironia potente, arguzia e drammatica amarezza". Quest’ultima, qui più che altrove, si fa marcata rispetto a "Sta finestra do' 'da", "Mo 'n giorno che è" e "Su e giù dall’ospedale".
Al solito, Marchesini non si limita a testimoniare. Ma condisce e impreziosisce, firma pezzi di teatro cartaceo, altalenando tra linguaggi e stili. Con le sfumature del caso tra l’artigiano di bottega e il contadino che, madido di fatica, fa ingresso in città. Contrapponendo così l'eleganza borghese dell'antico Caffè Martini, sito di fronte al bel Palazzo Comunale, alla sozzura di stanze dalle pareti affumicate del fumo dei bracieri e al tentennio incessante di bambini ammucchiati e luridi su pavimenti di terra battuta. "Les Misérables" di casa nostra hanno la schiettezza dei Cavajoli che li rende veri e veraci, pruriginosi e umanamente terreni. La storia del processo di Settimio Pupo contro Angela Lupi - calzolaio ciabattino, il primo, signorina meretrice, la seconda - s'impunta di fronte al giudice - torinese, neh! - Antonio Barbero.
Nei doppi sensi di chi non ha mezzi, prima di tutto linguistici, pazienza o umiltà per dare un nome a quello che sente. Poco importa se lo origlia dal fondo del mezzanino. Tra arie teatrali e virilità improbabili, e personaggi come il Cimiciaro il cui ricordo è conservato "dentro lo scrigno tufaceo di questa nostra Città" gli anni successivi alla guerra del 1915-18 si fanno espediente per rievocare a chi conosceva e raccontare a chi ignorava la gestazione dell’espressione tutta locale di "Ah, pipì!". "Intorno a questa storia giudiziaria - conviene l'autore - si avvolge un affresco dell'epoca, di burle di calzolai e di artigiani, di fatti di osteria, di personaggi, di ambienti, di episodi accaduti in quegli anni non così lontani che il quartiere della Cava, nei suoi anfratti, nei fondi dei cellai, nel ripido declivio che termina a Porta Maggiore conserva tuttora visibile". Lì dove anche la leggenda orale si ferma, subentra la parola scritta. Edificante.

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