cultura

Foto, storie e ricordi di Orvieto fuori dai cassetti. Il primo ad aprirli è Reno Montanucci

giovedì 16 ottobre 2014
di Davide Pompei
Foto, storie e ricordi di Orvieto fuori dai cassetti. Il primo ad aprirli è Reno Montanucci

C'è chi là dentro, ha trovato ristoro in un torrido pomeriggio d'estate. Chi, da bambino, osservava i nodi sul legno dei banchi mentre la nonna anticipava le risposte del prete intento a dir messa. E chi sotto quelle volte, ci è tornato vestito di bianco per dirsi sì. Se i viaggi sono i viaggiatori, i luoghi sono anche le persone. È con questa consapevolezza e con l'urgenza di non disperdere un materiale così sensibile che il Comitato festeggiamenti di Sant'Antonio ha dato il via a un'originale iniziativa di recupero di memorie legate alla chiesa più antica di Orvieto e al suo quartiere. Invitando chiunque ne abbia voglia a riproporre fatti, aneddoti e personaggi – "da Lo Sceriffo a Mamma Sisa, che la comunità proteggeva" – attingendo alla propria memoria personale o familiare, in uno scritto o attraverso documenti fotografici che dovranno pervenire in busta chiusa nelle mani del parroco, don Enrico Bartoccini.

L'occasione è offerta dalla riapertura al culto, dopo tre anni e mezzo, della Chiesa di San Giovenale, prossima a presentare la ritrovata luce degli affreschi che la ricoprono. Il materiale fin qui raccolto, sarà condiviso – in senso reale e non virtuale – con la cittadinanza nei locali del ristorante "La Domus", in Piazza San Giovenale, al termine della presentazione messa in agenda per venerdì 17 ottobre alle 17. "È un punto di partenza – spiegano dal comitato – che se avrà seguito potremmo riproporre in forma più estesa il prossimo 13 giugno, in concomitanza con i festeggiamenti patronali di Sant'Antonio". Dando vita non solo a una mostra ma anche a una pubblicazione. Molto dipenderà, anche stavolta, dall'effettiva partecipazione a una proposta popolare che intende far leva sul concetto di condivisione collettiva per rafforzare il senso di comunità.

Ha già fatto sua l'idea, Nazzareno Montanucci, titolare del centenario Caffè cittadino che a giugno ha lanciato il progetto "Orvieto, una Città all'infinito" legato a doppio nodo alla Rupe di tufo. "Questa città – torna a dire – più vive e meglio permette a chi ci vive e lavora di avere una risposta positiva anche in termini di investimenti. La mia azienda investe in questa città perché spera non solo di svolgere una funzione sociale, ma anche di avere dei ritorni culturali ed emotivi, oltre che economici. Quella di San Giovenale è una parrocchia che ha sempre dimostrato una grande sensibilità, legata com'è alla festività di Sant'Antonio. Una realtà viva pronta a indire collette per facilitare le opere di ripristino della chiesa. È una delle testimonianze esistenti di vicinanza concreta della comunità alle vicende delle propria città. Già c'era un terreno fertile, dunque".

E poi c'è il terreno personale. "C'è una storia – prosegue – che mi ha ricondotto a dire, provocatoriamente, che nell'anno di grazia del nuovo millennio non racconta più niente nessuno. Non ci sono più le storie da raccontare o non viviamo una dimensione disposta a raccontare e sentire? Mio nonno, il padre di mia madre, faceva il contadino e accudiva la vigna che sorgeva dove ora c'è l'ex caserma Piave. A poco più di vent'anni, in una famiglia fatta di soli uomini, muore la madre. Lui, che non faceva alcuna vita mondana e aveva già una discreta dimensione religiosa, viene investito così dalla responsabilità di sposarsi come unico modo per risolvere i problemi della famiglia.

Con l'esigenza di trovare un'altra donna, gli viene indicato che forse nella zona di San Giovenale avrebbe potuto trovare una ragazza, rimasta orfana di madre alla nascita. L'aiuto popolare, allora, si manifestava anche attraverso il collegamento tra chi si trovava in una situazione di difficoltà che guarda caso derivava dalla stessa causa: la perdita della mamma. Tutto questo, probabilmente, indusse mio nonno a pensare che forse potesse essere quella la mossa giusta. Da Pistrella, parte bassa della città, si presenta una volta alle funzioni religiose di San Giovenale. Individua l'orfanella e le chiede di sposarlo. Mia madre, che mi raccontava questo episodio, aggiungeva sempre: "Non c'è stata famiglia dove si sono voluti tanto bene".

Ho, quindi, un grande debito verso questa chiesa e verso un intero quartiere. Mio nonno era finito ad abitare in Via Ripa dell'Olmo perché da lì era più facile andare a lavorare la terra lungo la Strada della Patarina. Mio zio Mario, invece, era uno dei festaroli di Sant'Antonio e aveva il compito di accudire le ripe che davano sui campi dove si fermava la statua del santo a benedire la terra lavorata dai contadini. Chi ci ha preceduto, ha la concezione contadina del seminare. Noi creiamo gli stessi presupposti per altri.

Come testimonianza di attaccamento alle vicende della nostra città, che dia la stura a tutto il resto. Anche al modo di vivere, con prospettiva positiva, e fronteggiare le difficoltà. Diamo una spinta verso la dimensione vivibile che Orvieto ha dimenticato. Il problema è sentirsi stretti, affidarsi ai sentimenti di resistenza, immaginazione e fantasia. Di credo nella propria capacità di andare avanti comunque, senza cedere a modalità massificate di risolvere le difficoltà. Dovremmo credere un po' più in noi e nelle nostre risorse culturali. Crediamo che ci sia un modo orvietano di risolvere il problema! Crediamo alla capacità di reagire e pensare al futuro!".

Si presenta il restauro artistico e architettonico di San Giovenale

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