cronaca

Rischio veleni nella Tuscia, 8 comuni individuati per il deposito di rifiuti radioattivi

martedì 5 gennaio 2021
Rischio veleni nella Tuscia, 8 comuni individuati per il deposito di rifiuti radioattivi

Una Provincia che deve tutelare la propria salute dal rischio delle radiazioni da radon, dal rischio dell’acqua con l’arsenico, dall’abuso di pesticidi e fitofarmaci, del dilagare di impianti fotovoltaici, che non è ancora riuscita a definire lo smantellamento e il futuro della centrale di Montalto di Castro, insidiata dagli impianti geotermici, non può certo permettersi di essere inserita tra le Aree Potenzialmente Idonee alla localizzazione del Deposito Nazionale dei Rifiuti Radioattivi

Un’economia, quella della Tuscia, profondamente legata al turismo e all’agricoltura di qualità ne riceverebbe – dopo la pandemia – un colpo definitivo e mortale. Siamo certi che le istituzioni e i rappresentanti regionali e parlamentari si mobiliteranno con i criteri di precauzione e prevenzione a tutelare della crescita, dello sviluppo e della salute dei cittadini della Tuscia.

Di seguito l’articolo del Corriere.it che approfondisce i dettagli della Carta delle aree potenzialmente idonee.

Dopo sei anni di attesa esce nel cuore della notte tra il 4 e il 5 gennaio la mappa delle aree che potranno ospitare il Deposito nazionale dei rifiuti radioattivi italiani, la cosiddetta «Cnapi», Carta delle aree potenzialmente idonee. È il documento dove sono state individuate 67 aree che soddisfano i 25 criteri stabiliti nel 2014-2015. Si tratta di Comuni raccolti in cinque macrozone, che potremmo definire così: Piemonte con 8 aree tra le province di Torino e Alessandria (Comuni di Caluso, Mazzè, Rondissone, Carmagnola, Alessandria, Quargento, Bosco Marengo e così via); Toscana-Lazio con 24 aree tra Siena, Grosseto e Viterbo (che comprendono i Comuni di Pienza, Campagnatico, Ischia e Montalto di Castro, Canino, Tuscania, Tarquinia, Vignanello, Gallese, Corchiano); Basilicata-Puglia con 17 aree tra Potenza, Matera, Bari, Taranto (Comuni di Genzano, Irsina, Acerenza, Oppido Lucano, Gravina, Altamura, Matera, Laterza, Bernalda, Montalbano, Montescaglioso; poi le Isole, con la Sardegna (14 aree) in provincia di Oristano (Siapiccia, Albagiara, Assolo, Usellus, Mogorella, Villa Sant’Antonio) e nel Sud Sardegna (Nuragus, Nurri, Genuri, Setzu, Turri, Pauli Arbarei, Ortacesus, Guasila, Segariu, Villamar, Gergei e altri); e la Sicilia, 4 aree nelle province di Trapani, Palermo, Caltanissetta (Comuni di Trapani, Calatafimi, Segesta, Castellana, Petralia, Butera). La mappa nei dettagli si può consultare sul sito depositonazionale.it

Spesa prevista 900 milioni
Qualche giorno fa i ministeri dello Sviluppo economico e quello dell’Ambiente avevano finalmente dato il «nulla osta» alla pubblicazione della mappa, tenuta rigorosamente chiusa nei cassetti della Sogin, la società che si occupa dello smantellamento delle vecchie centrali, per tutto questo tempo. La Sogin ha tenuto un consiglio straordinario lo scorso 31 dicembre. Dalla pubblicazione del 5 gennaio inizia il processo che nel giro di qualche anno porterà alla localizzazione del sito che in un primo momento dovrà contenere 78 mila metri cubi di rifiuti a bassa e media intensità e poi anche 17 mila metri cubi ad alta attività, questi ultimi per un massimo di 50 anni (per poi essere sistemati in un deposito geologico di profondità di cui al momento poco si sa). Spesa prevista? Per il Deposito e il Parco tecnologico è prevista una spesa di 900 milioni di euro, che saranno prelevati dalle componenti della bolletta elettrica pagata dai consumatori.

I criteri
Nel suo documento del 2014 l’Ispra aveva identificato almeno 28 tra criteri ed aree di esclusione. Criteri geologici a cui se ne aggiungono altri amministrativi. E altri ancora di convenienza e buon senso: anche se le isole, Sicilia e soprattutto Sardegna, sono comprese, per loro si unirebbe alle altre complessità anche il problema del trasporto. Le prime aree da scartare sono state comunque quelle vulcaniche, e poi quelle sismiche o interessate a fenomeni di faglia; quelle soggette a frane e inondazioni, o in fasce fluviali o in depositi alluvionali preistorici; le aree al di sopra di 700 metri di altitudine o con pendenze superiori al 10%. E ancora: quelle sino alla distanza di 5 chilometri dalla costa, in zone carsiche o vicine a sorgenti o a Parchi nazionali o luoghi di interesse naturalistico; bisogna poi mantenere un’«adeguata distanza» dai centri abitati; almeno un chilometro da autostrade, strade statali o linee ferroviarie; bisogna tenersi lontani da attività industriali, dighe, aereoporti, poligoni militari, zone di sfruttamento minerario.

78mila metri cubi di scorie radioattive
La superficie necessaria al Deposito sarà tutto sommato modesta, e pari a 150 ettari, di cui 110 per il Deposito e 40 per il Parco tecnologico. Una volta riempito, il Deposito avrà tre barriere protettive, e sarà poi ricoperto da una collina artificiale, una quarta barriera, e da un manto erboso. Le barriere ingegneristiche dovranno garantire l’isolamento dei rifiuti radioattivi per più di 300 anni, ovvero fino al loro decadimento a livelli tali da non essere più nocivi per la salute dell’uomo e dell’ambiente. Si tratterà di 78mila metri cubi di rifiuti radioattivi a bassa e media attività: 50mila dallo smantellamento degli impianti nucleari italiani (ancora quasi tutto da fare, si parla del 2036) e 28mila dalla ricerca, medicina nucleare e industria. Circa 33mila sono già stati prodotti, gli altri 50mila sono previsti per il futuro. Bisognerà poi trovare posto, (compresi nei 17mila metri cubi ad alta attività) a circa 400 metri cubi assai pericolosi, costituiti da combustibile non riprocessabile o da combustibili mandati in Francia e Gran Bretagna (a pagamento) per essere riprocessati, e che decadono in migliaia di anni. Resteranno nel Deposito per essere avviati a uno stoccaggio di profondità, anche se per ora non si sa dove, come e quando. Di certo c’è che, ad esempio, ad oggi a Trisaia in Basilicata alcuni contenitori che hanno 50 anni contengono una soluzione liquida di uranio arricchito, mentre a Saluggia, vicino a Vercelli e in riva alla Dora Baltea, giacciono 230 metri cubi di rifiuti liquidi ad alta attività sempre dentro a contenitori di 50 anni fa. Dopo l’alluvione del 2000 l’allora commissario Enea e premio Nobel Carlo Rubbia dichiarò che si era «sfiorata una catastrofe planetaria».

L’iter e la consultazione pubblica. Poi la costruzione
Che cosa accadrà ora? Nei sessanta giorni successivi alla pubblicazione del 5 gennaio parte la «consultazione pubblica». Le Regioni, gli enti locali e i soggetti interessati potranno formulare le loro osservazioni e proposte tecniche alla Sogin. È la prima consultazione pubblica che si svolge in Italia. In generale l’iter non si preannuncia facile, visto che bisognerà raccogliere il consenso delle comunità interessate e delle istituzioni locali. La consultazione pubblica durerà in tutto quattro mesi, compreso anche il «seminario nazionale» che Sogin dovrà organizzare, e una successiva rielaborazione di tre mesi che darà luogo alla «Carta nazionale delle aree idonee». Poi si passerà alla fase delle «manifestazioni di interesse» dei territori. Il tutto in un periodo di pandemia, con le immaginabili difficoltà che si aggiungeranno ad una procedura di per sé complessa. Una volta individuato il sito serviranno quattro anni per la costruzione.

Il peso su governo e politica
Ma dopo i rinvii «politici» per le Regionali del 2015, il referendum costituzionale del 2016, le elezioni del 2018, il cambio di governo con il Conte2, e dopo la procedura di infrazione aperta dalla Commissione europea a fine ottobre scorso, non si poteva più aspettare. Qualche settimana fa molti comitati e associazioni ambientaliste piemontesi (in particolare del vercellese e della Valsesia) avevano scritto ai ministri Stefano Patuanelli e Sergio Costa proprio per sollecitare la pubblicazione della Carta. Ora, con il nulla osta, è verosimile che la questione della localizzazione, e del potenziale “nimby” che comporta (“not in my backyard”, non nel mio giardino) possa creare un motivo ulteriore di dibattito in un momento delicato per il governo Conte.

I dubbi sulle capacità Sogin
Infine resta l’interrogativo sulle capacità dell’attuale Sogin di condurre in porto la realizzazione. Nata nel 2001, costa agli italiani di sole spese di gestione circa 130 milioni l’anno, pagati in bolletta. Di rinvio in rinvio ha programmato la fine del decommissioning nucleare al 2036, 49 anni dopo il referendum del 1987. La società ha accumulato enormi ritardi nella messa in sicurezza dei rifiuti nucleari nazionali e nello smantellamento degli impianti, spendendo sinora, tutti prelevati sempre dalla bolletta elettrica, più di 4 miliardi di euro per completare circa il 30% dei lavori (che dovrebbero finire, appunto, nel 2036). Secondo fonti sindacali, solo due mesi fa la Sogin ha visto pressoché deserta l’ennesima gara per la realizzazione dell’impianto Cemex per la messa in sicurezza dei più pericolosi rifiuti radioattivi italiani, quelli liquidi di Saluggia. Nonostante il bando valesse 130 milioni di euro nessuno dei grandi operatori nazionali ha presentato un’offerta. L’unica pervenuta è stata da parte di un consorzio di manutentori del napoletano. In passato, secondo la stessa Sogin, un gruppo come Saipem non sarebbe stato in grado di accollarsi il compito, una questione poi finita nelle aule dei tribunali. Ora la società avrà il compito di convincere la popolazione di almeno uno dei 67 siti idonei a farsi carico di tutti i rifiuti radioattivi italiani.

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