costume
Zecca o Pariolo, l’abito fa il monaco. Quando è il look a dire chi sei…
giovedì 30 marzo 2006
di Davide Pompei
Sedersi sugli scalini del duomo, specie l’estate, è come stare in un limbo intermedio. I né carne né pesce siedono annoiati e osservano dalla loro postazione privilegiata gli estremi delle possibili forme dell’apparenza giovanile. A destra la comitiva fighetta, che parcheggiata la Mini, si concede giuliva e sciccosa un happy hour all’Hescanas prima di sdarsi nei locali più modaioli che il comprensorio offre. A sinistra la colorata mandria degli alternativi, che bivacca euforica e alticcia, tra tamtam primordiali, chitarre e fiumi di birra. Orvieto trova nel suo piccolo le rappresentanze di quei mondi giovanili raccontati dai media o visti sulle metro delle grandi città, stili di vita e modi di essere proporzionati al contesto, ma che fanno il verso a precisi stili di vita.
Bombardati da bionde coetanee anoressiche e lampadati tronisti, anche i giovani che se ne fregano delle mode, finiscono involontariamente per subire il mito di comportamenti preconfezionati. Si instaura un circolo perverso in cui pubblicità e giovani si influenzano reciprocamente, è la moda a scimmiottare il loro gergo, ma sono essi stessi a indossare (e a fare) quello che è in, per non essere out. Come la Caterina di Virzì, si va in città e si trovano vite già pronte, diverse ed estreme, zecche o pariole. Basta solo indossarle, senza la fatica di costruire uno stile personale. Masse belanti di adolescenti scelgono, anche in modo inconsapevole, di emulare i modelli proposti, omologarsi pur di riconoscersi in un gruppo, non essere giudicati diversi e per questo isolati. E’ un po’ triste ripetere le scelte di tutti, rinunciare ad avere una personalità, arrendersi a una moda pensata da altri. Per dirla con Jung “Una vita che non si individua è una vita sprecata”. Ma d'altronde la catalogazione è quasi inevitabile, vivere tra una moltitudine di stili impone un prezzo psicologico che non tutti si sentono di affrontare. Tre giri di kefiah intorno al collo, rasta incolti e pantalone un po’ hippy e un po’ no global oppure jeans da 400 euro, scarpina argentata dal tacco fashion e borsa griffata, più diva che donna.
Anche chi vorrebbe andare ad di là delle apparenze, è costretto a misurarsi con le diversità che gli passano accanto, rimettendo in discussione il suo modo di essere e di comportarsi. Solo il continuo confronto e la tendenza all’osservazione, accompagnati da una silente riflessione, consentono di imparare a decifrare i segni della distinzione e i riti della socievolezza, cogliere l’essenza di qualcosa a partire da un particolare e comprendere le forme segrete di gesti contraddittori, le leggi sfuggenti e capricciose della moda. I giovani devono ricorrere continuamente alla particolarità e alla differenziazione per attirare l’attenzione su di sé. Devono diventare eccentrici per distinguersi, colpire l’altro nei suoi aspetti sensoriali e comunicargli un’immagine di sé azzeccata e vincente, devono urlare, esagerare per farsi sentire, anche da loro stessi. Ecco allora la provocazione, l’estremo, l’eccesso, il colorato non passare inosservati, il Carnevale di Rio lungo il corso di un qualsiasi paese di provincia.
Le proposte della moda portano a cambiamenti nelle relazioni sociali e rinegoziano identità non ancora solide come quelle giovanili. Dai modelli unisex a un’ambiguità di fondo, i giovani sono tutti esposti a una stessa ferrosa pioggia di piercing che si attaccano ovunque, tribali e ideogrammi che macchiano il corpo, parabrezza promossi a occhiali da sole, pantaloni iper-attillati che iniziano a inguine finito e canotte calate che finiscono a seno iniziato. Trucchi che oscurano e ombelichi in vista, zeppe da trampolieri o pianelle terapeutiche rubate alla nonna, sneakers fluo e gioielli in plastica, creste asimmetriche e potenti decolorazioni, rosa-Barbie o aggressivi-Marilyn Manson. Gli adolescenti sono tutti vittime e carnefici, nella dura guerra della moda. E mai troppo giovani per diventare il target ideale, i consumatori ad hoc. Nella sfuggente società dell’immagine esibire un marchio è rassicurante e significa professare uno status. Arrogante, aggressivo, sovraesposto, il logo è ripetuto allo sfinimento, sia la G moltiplicata di Gucci, la C incrociata di Chanel, le F di Fendi o lo storico monogramma di Louis Vuitton. Le iniziali alla D&G sono copiatissime e si autocelebrano, invadendo perfino le esilissime infradito da mare.
Dietro a un vestito, c’è una persona col suo modo di essere e di fare. Ragazzi che si aggirano un po’ spaesati, cercando luoghi, persone, ideali, segni distintivi, segni di appartenenza attorno ai quali radunarsi e diventare tribù, clan. Una compagnia di attori di se stessi, che malgrado tutto ha in corpo la forza per alzare la voce e farsi sentire e al mutare delle stagioni cambiare anch’essi. Superando giudizi di valore e gusti personali, il punto di rottura sta nel comprendere la differenza tra seguire i propri istinti e uniformarsi a quelli di uso comune.
Un jeans e una maglietta

Nota della Redazione: Orvietonews, giornale online registrato presso il Tribunale di Orvieto (TR) nr. 94 del 14/12/2000, non è una bacheca pubblica. Pur mantenendo fede alla disponibilità e allo spirito di servizio che ci ha sempre contraddistinto risultando di gran lunga l’organo di informazione più seguito e letto del nostro territorio, la pubblicazione di comunicati politici, note stampa e altri contributi inviati alla redazione avviene a discrezione della direzione, che si riserva il diritto di selezionare e modificare i contenuti in base a criteri giornalistici e di rilevanza per i lettori.