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Andrea Brandoni si gode la Vetrya Orvieto Basket dei giovani

mercoledì 27 febbraio 2019
di Roberto Pace
Andrea Brandoni si gode la Vetrya Orvieto Basket dei giovani

Avendo per interlocutore Andrea Brandoni il ricordo va a una mattina di tanti anni fa, quando, in attesa di prendere la vecchia funicolare, fui colpito dalla presenza di un gruppo di tifosi, assiepati ai cancelli della stazione di Piazza Cahen. Dalla mitica vettura, bianca e celeste, sbucarono un gruppo di giovani, tutti prestanti, con borsoni sui quali era scritto “Cantine Maggi”. Erano i componenti della squadra di Orvieto, cestisti dei primi anni ’60, di ritorno da una trasferta vittoriosa. Viaggiavano in treno, utilizzavano la funicolare, si allenavano e giocavano sul campo del Liceo Gualterio.

Il basket, a Orvieto, era già di casa, secondo soltanto al calcio, un po’ come da tutte le parti. L’eco delle loro gesta, a quel tempo, si spegneva appena usciti dalla Rupe e per gli abitanti della stazione, di Sferracavallo e di tutte le frazioni, quella disciplina, affascinante, sarebbe rimasta ancora per parecchio tempo oggetto misterioso. Andrea, attuale coach della Vetrya Basket, a quel tempo non poteva esserci. Anche lui, però, a distanza di oltre mezzo secolo, è costretto a confrontarsi con il problema delle strutture, ad oggi insoluto: “Anno più, anno meno, il nostro esilio a Porano dura da un quarto di secolo.

Per carità, tanto di cappello, al paese che ci ospita e manifesta il suo affetto. Dico soltanto che, nel momento in cui, da piccolo, mi divertivo sul campo delle scuole medie, a Piazza Marconi, sognavo qualcosa di meglio. Per nostra fortuna, con la storia costruita da chi ci ha preceduto, contiamo su una buona organizzazione. Non sufficiente, ad ogni modo, ad evitare i trasferimenti giornalieri, che rubano tempo prezioso agli allenamenti ed allo studio, oltre a costringere le famiglie ad andate e ritorno continue. Situazioni delle quali le responsabilità sono a tutti note, che non fanno bene al nostro sport. Ci vengono a mancare impianti idonei per la crescita del movimento. Il basket, a differenza del calcio, non è praticabile nel primo spazio libero. Per fortuna, come dicevo, che esiste la passione mia e di altri colleghi amanti di questo sport, a rendere partecipi i più giovani, con interventi mirati all’interno delle Scuole e con manifestazioni collegate”.

Andrea, primo allenatore della Vetrya, è riuscito, in questa stagione, a modificare la rotta in corso d’opera. Adesso che mancano quattro giornate al termine della sessione regolare la meta non è più la salvezza, quasi acquisita, ma la disputa dei play off. I meriti sono suoi, ma non solo, perché, spiega Andrea, il nostro è un lavoro di gruppo, partito da molto lontano:  "Cito – uno per tutti – Francesco Olivieri e il bagaglio di esperienze che si è fatto girando per l’Italia con il basket. Un patrimonio, il suo, messo a disposizione dei nostri giovani che ne apprezzano i contenuti , si impegnano maggiormente, riuscendo a percepire la loro crescita, non solo sul piano strettamente agonistico”.

Tu, in squadra, di giovani ne hai parecchi e ne hai avuti anche in passato. Stanno cambiando, sono cambiati?  "Ti dico una cosa. Dieci giorni fa, dopo la vittoria sulla capolista, sono stato con loro e mi sono divertito, mettendomi, per un po’, sul loro piano. Insomma, a 49 anni, tanti ne sono, ho cazzeggiato come un ragazzo di 18, 19 anni. Ho sentito di poterlo fare, senza correre il rischio di una confusione dei ruoli. Perché il nostro lavoro non si ferma a una conoscenza superficiale di ognuno di loro. Cerchiamo di capirne le aspirazioni come le paure e le loro aspettative. In definitiva, se li conosci bene, entrare nel loro mondo e nei loro modi è più facile di quanto possa apparire.  Azzeri le distanze e riesci, così, a trarne il massimo”.

Facciamo due conti. Hai detto la tua età, 49, quanti dei quali passati con il basket? Quando, per la prima volta, sono entrato nel piazzale della Scuola Media e ho avuto tra le mani un pallone da basket, avevo cinque anni. E non l’ho più abbandonato. E’ stata un’attrazione “fatale”, in quanto, sul campo c’era la possibilità di fare anche altri sport, calcio compreso. La domenica c’era la partita e non ne perdevo una. Mi piaceva sapere tutto di tutti, non solo a livello di Orvieto, ma su tutto ciò che accadeva nel mondo della pallacanestro. Ho avuto il piacere e l’onore di indossare la maglia dell’Orvieto Basket, ho conseguito le varie qualifiche per allenare, dai più piccini alle formazioni professioniste. Il tutto per la passione che mi porto dentro e fa parte di me”.

Ma, studi ancora? “Più di prima, per la verità. La mia giornata tipo comprende, oltre l’attività professionale, è agente assicurativo, non meno di sei ore dedicate a questo sport. Se non ti aggiorni, si corre il rischio di diventare inattuale. Con i ragazzi e la pallacanestro non puoi correrlo”. Hai ottenuto una deroga alle ventiquattro h. quotidiane? “Riesco ancora a starci – risponde sorridendo – solo che, per me, la notte è sempre giovane. Quindi, dopo le due ore di allenamenti giornalieri, trascorro diverse ore della notte studiando le partite, gli avversari e a tenermi aggiornato sulle evoluzioni del basket”.

Nello spogliatoio e gli amici più intimi ti avevano soprannominato Pastarella. Ha a che vedere con la pallacanestro? “ Indirettamente. Una volta, eravamo in gruppo, mi abbuffai con tre bignè alla crema, divorati in rapida successione. E da lì nacque il Pastarella”. Nel roster della tua squadra figurano tanti orvietani. E’ stato sempre così semplice portare avanti un gruppo omogeneo fino alla prima squadra? “No. Anche se la pallacanestro orvietana ha, sempre o quasi, privilegiato scommettere sui giovani che arrivano dalle formazioni giovanili. Quello attuale è un bel periodo. Perché il gruppo è numeroso e ben affiatato. I ragazzi fanno gruppo, si frequentano anche fuori dal Palazzetto e parecchi di loro hanno in comuna anche la scuola. Un insieme che facilita il nostro lavoro, dove è anche prevista la sintesi delle singole personalità. In un quintetto che riesca a dare il massimo, vanno coniugate le esuberanze dei giovani e l’esperienza di quelli più grandi.

Noi, che avevamo convinto Fabio Marcante a posticipare la fine della carriera e che abbiamo recuperato da poco il nostro capitano, Valerio Abet, rinunciando a un giocatore spagnolo, ci adoperiamo in tal senso. Fabio, partendo dalla Snaidero Udine, ha giocato, da professionista, in mezza Italia, prima di arrivare a Orvieto, nel 2013, per dare un grosso contributo alla permanenza in serie B. Quanto al capitano, fa del suo carisma uno dei punti di forza, per dare sicurezza ai più e renderli più sereni quando la troppa pressione rischia di sopraffarli”.

Abbiamo già detto della tua età e degli anni trascorsi nella pallacanestro. Con i circa quarantaquattro anni di professione saresti già da pensione, ma penso che un’idea del genere non ti sia mai venuta. Cosa vedi nel tuo futuro e in quello del basket cittadino? “ In quello personale conto e spero di proseguire ad occuparmi dello sport che amo. Per capirmi meglio, dovresti sperimentare una soddisfazione identica alla mia nel vedere un ragazzo, che segui da anni, giungere a una svolta importante della sua carriera. E’ il coronamento di un progetto, nel quale hai creduto e ti sei impegnato per realizzarlo. Il massimo del piacere. Per il tempo avvenire del basket sogno la realizzazione di una struttura ad hoc nella mia città. Siamo fuori da troppo tempo ed è ora che qualcuno si accorga anche delle nostre necessità”.

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