«Sai, Angelo, a volte penso che la solitudine sia come un chiodo arrugginito conficcato nella carne viva. Non te ne liberi, continua a pulsare», mi dice Valentino, con gli occhi accesi di un bambino che avrebbe voluto solo essere stretto forte, forte. Il crack gli ha soffocato il dolore di un abbandono troppo precoce: una madre che amava in modo furioso e fragile, un padre che oggi continua a bere whisky su una panchina, confondendo l’alba con il tramonto e prendendo il treno su e giù per Arezzo.
«La gente mi guarda come fossi un condannato a vita», sussurra, mentre la voce gli si spezza come cocci di bottiglia sotto i passi. Non è la ferita che fa più male, ma il dito puntato, lo stigma che brucia più di qualsiasi taglio, la parola sprezzante che ti riduce a rimasuglio, l’occhiata rapida che ti inchioda a un destino già scritto, la frase sussurrata in un corridoio che diventa condanna.
Penso ai troppi sacerdoti e leviti che passano oltre, frettolosi e impauriti. Valentino resta lì, con la pancia calda e vulnerabile squarciata dal giudizio di una retorica che guarda dal buco della serratura, e un grido che nessuno vuole ascoltare. Eppure, dietro i suoi occhi velati, c'è ancora un’implorazione di vita, un bisogno di sentirsi umano, un desiderio disperato di un contatto caldo e vero.
La ferita dell’anima non ha cerotti. Non si placa con frasi fatte né con carezze superficiali: chiede una presenza che sappia stare accanto senza fuggire, che non riduca l’altro a fallimento, che non inchiodi la storia a una becera e consunta etichetta.
Quando Valentino accende un’altra Marlboro rossa, tra le dita tremanti vedo un rosario segreto: ogni tiro è un’invocazione muta, un rosario di silenzi e di crepe. Forse non implora salvezza, forse chiede solo di non essere lasciato solo a conversare coi suoi fantasmi. Già, i suoi maledetti mostri.