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Nella messa crismale il vescovo esorta a "diffondere il profumo di Cristo, che impregna gli oli santi"

giovedì 28 marzo 2024

Nella solenne messa crismale, presieduta nel pomeriggio di mercoledì 27 marzo in Duomo da monsignor Gualtiero Sigismondi, vescovo della Diocesi di Orvieto-Todi, insieme al Presbiterio Diocesano e ai vescovi Mario Ceccobelli e Domenico Cancian, alla presenza di numerosi fedeli laici e religiosi, sono risuonate fortemente, nella profonda e vibrante omelia, due parole: pianto e incanto, "la sistole e la diastole di ‘un cuore che vede’, come quello di Gesù".

"Sentire su di noi – ha detto il presule – e accogliere dentro di noi lo sguardo ‘sereno e benigno’ del Signore, imparando da Lui a tenere aperti gli occhi sulle necessità e le sofferenze dei fratelli: questa è la condizione per diffondere il ‘profumo di Cristo’, che impregna gli oli santi".

Gli oli santi sono "segni misteriosi di grazia – ha poi sottolineato – di cui ha bisogno anche l’occhio, ‘lampada del corpo’: dell’olio degli infermi, per scorgere ‘all’ombra della croce’ la luce della speranza; dell’olio dei catecumeni, ‘per vincere le torbide suggestioni del male’; dell’olio di esultanza del crisma, per gustare e vedere ‘tutto il bene spirituale della Chiesa'".

Al termine della celebrazione il vescovo ha ringraziato presbiteri, diaconi e religiosi per il loro impegno, chiedendo al Signore, che "conosce lo sguardo del vostro cuore, di moltiplicare in benedizione per ciascuno di voi e per le comunità che vi sono affidate". Ha poi rivolto un grande grazie ai fedeli per la preghiera da loro innalzata al Padre "per noi, perché il pianto e l’incanto siano la sistole e la dastole del nostro servizio pastorale". Ed ancora il sentito "grazie a quanti hanno lavorato perché questa celebrazione manifestasse tutto il suo splendore di bellezza, dalla sacrestia alla corale".

Di seguito, in forma integrale, il testo dell’omelia:

"Lo Spirito del Signore è sopra di me" (Is 61,1; Lc 4,18): proclamando questo passo del profeta Isaia, Gesù inaugura la sua missione nella sinagoga di Nazaret. Consegnato il rotolo all’inserviente, “gli occhi di tutti si fissano su di Lui” (4,20), ma il loro sguardo, annebbiato dalla curiosità, non traduce la meraviglia in stupore ma la riduce a sdegno. Ad essi si addice quanto il Signore confida a Israele per mezzo del profeta Osea: “Il mio popolo è duro a convertirsi: chiamato a guardare in alto, nessuno sa sollevare lo sguardo” (Os 11,7).

Gli occhi sono lo “specchio dell’anima”: se “curati con il collirio della fede”, cioè illuminati dalla parola di Dio, “fanno gioire il cuore” (cf. Sal 19,9). Secondo Romano Guardini le radici degli occhi affondano nel cuore: “solo l’amore è capace di vedere”. L’abbraccio dello sguardo avvicina al cuore, ne sente il battito; occhi e cuore si muovono insieme: “il cuore segue gli occhi” (cf. Gb 31,7) ed essi fanno ardere il cuore. Secondo Antoine Jean Baptiste Marie Roger de Saint-Exupéry, “l’essenziale è invisibile agli occhi”, e tuttavia essi, nei riflessi delle loro infinite espressioni, vedono l’indicibile, a condizione che non siano “stanchi di guardare in alto” (cf. Is 38,14), appesantiti dalle cataratte dell’alterigia, resi strabici o fatti miopi dalla superbia del cuore (cf. Sal 101,5).

Fratelli e sorelle carissimi, “alziamo gli occhi al Signore, nostro Dio, finché abbia pietà di noi” (cf. Sal 123,1-2). Consapevoli di essere “rivestiti di debolezza” (cf. Eb 5,2), noi pastori non osiamo abbassare lo sguardo sulle inadempienze della nostra durezza di cuore. È opportuno rileggere, in proposito, una pagina di don Primo Mazzolari, tratta dall’opuscolo Il mio parroco, preparato nell’estate del 1932 e offerto, come “biglietto di congedo”, ai parrocchiani di Cicognara e, come “biglietto da visita”, a quelli di Bozzolo, due borgate della Bassa padana che egli ha curato pastoralmente nella lunga e operosa vigilia della stagione conciliare.

Nel sottolineare la differenza incolmabile tra l’immagine ideale e la persona reale del prete, don Primo ritiene impossibile il tentativo “di colmare la differenza fra l’ideale e la realtà” e sacrilega l’impresa di “abbassare l’idea”. Egli considera dannosa la stessa “mistica del sacerdote”, in quanto accresce la delusione e l’irritazione dei fedeli i quali, però, non possono avvertire il “dramma intimo” di un prete, “lo strazio di dovere quasi sempre predicare delle parole che sono più in alto, se non proprio in aperto contrasto, con la sua vita”. Così scrive Mazzolari: “Sforzarsi di colmare la differenza fra l’ideale e la realtà. Ma c’è un abisso di mezzo, che i santi stessi non riescono a colmare (…). Abbassare l’idea. Ma non è fortunatamente in nostro potere: l’ideale è nella vocazione e la vocazione è del Signore (…). Abbassare le cime: scorciare gli ideali. Che strana e sacrilega maniera per guarire le differenze! Ognuno si tenga quello che ha: voi la vostra delusione, noi il nostro tormento d’infedeltà: ma le vette stiano immacolate e pure per la vostra gioia, per il nostro anelito”.

Pianto e incanto sono la sistole e la diastole di “un cuore che vede”, come quello di Gesù. Il suo è uno sguardo che scruta i discepoli del Battista e li interroga: “Che cosa cercate?” (Gv 1,38). È uno sguardo contemplativo che raggiunge Natanaele: “Io ti ho visto quando eri sotto l’albero di fichi” (Gv 1,47-48). È uno sguardo misericordioso che risana il cuore di Matteo, staccandolo dal banco delle imposte (cf. Mt 9,9). È uno sguardo penetrante che, alla vista della folla, “sente compassione per loro” (cf. Mt 14,14). È uno sguardo affettivamente intenso che fissa “un uomo ricco” (cf. Mc 10,21), “un giovane” (cf. Mt 19,20.22), invitato a dare ai poveri le proprie ricchezze, senza condizionarne la risposta. È uno sguardo benedicente che incrocia gli occhi di Zaccheo il quale, su un sicomoro, “cerca di vedere” Gesù (cf. Lc 19,3.5). È uno sguardo gonfio di lacrime su Gerusalemme, che non sa riconoscere “quello che porta alla pace” (cf. Lc 19,41-42). È uno sguardo allenato a fare la spola tra cielo e terra (cf. Gv 17,1) per implorare che “tutti siano una sola cosa” (Gv 17,21).

Sentire su di noi e accogliere dentro di noi lo sguardo “sereno e benigno” del Signore, imparando da Lui a tenere aperti gli occhi sulle necessità e le sofferenze dei fratelli: questa è la condizione per diffondere il “profumo di Cristo” (cf. 2Cor 2,14-16), che impregna gli oli santi. Essi sono segni misteriosi di grazia di cui ha bisogno anche l’occhio, “lampada del corpo” (cf. Mt 6,22): dell’olio degli infermi, per scorgere “all’ombra della croce” la luce della speranza; dell’olio dei catecumeni, “per vincere le torbide suggestioni del male”; dell’olio di esultanza del crisma, per gustare e vedere “tutto il bene spirituale della Chiesa”.

Occhi limpidi, luminosi, aperti alle esigenze del Vangelo oltre che alle urgenze pastorali: ecco le credenziali che noi pastori siamo tenuti a presentare, sia svegliando l’aurora al chiarore della lampada del Tabernacolo, sia vivendo più uniti tra di noi e più immersi nel popolo di Dio. Il “peso di grazia” ricevuto con l’imposizione delle mani ci colloca all’incrocio tra lo sguardo di Dio e gli occhi dei fedeli e ci qualifica come “servi inutili” (cf. Lc 17,10). “Il diaconato – avverte Papa Francesco – non svanisce con il presbiterato; al contrario, è la base su cui si fonda”.

“Tenendo fisso lo sguardo su Gesù” (Eb 12,2), supplichiamolo di “purificare gli occhi del nostro spirito”, perché non si appesantiscano, non perdano di vista la bellezza intramontabile del servizio sacerdotale. La coscienza della nostra fragilità non affievolisca la “luce gentile” della fedeltà, alimentata dall’olio di letizia dell’amore. La fedeltà senza amore si spegne, la sequela senza amore stanca, lo zelo senza amore rende freddi, privi di ardore, di fervore, di entusiasmo sincero.

Fratelli e sorelle carissimi, “in alto i cuori”: noi, ministri ordinati, siamo più esposti di voi, fedeli laici, al giudizio che Paolo rivolge ai Galati, che hanno distolto lo sguardo dall’essenziale: “Siete decaduti dalla grazia” (Gal 5,4). “Guarda, rispondimi, Signore, mio Dio, conserva la luce ai miei occhi” (Sal 13,4); questa supplica salga dalla tribuna del nostro Duomo e si accordi con quella delle navate: “Gli occhi di tutti a te, Signore, sono rivolti in attesa” (Sal 145,15).