La cura della prigione o la prigione della cura?

Consentitemi questa riflessione in un periodo in cui tutti si interrogano sulla situazione spaventosa e paradossale che stiamo vivendo. Prendetela come un esercizio di parole in libertà, visto che la libertà non ce l’abbiamo più.
Anni di politica sanitaria scellerata hanno portato a tagli che si sono rivelati critici in tempi normali, figuriamoci in tempi di emergenza. Nel settore pubblico il personale è sotto organico (basti vedere i tempi di attesa per una visita o un esame diagnostico) e sottoposto a turni pesanti; le strumentazioni sono insufficienti e, quando si rompono – e si rompono perché usurate – rimangono inattive a lungo; gli accessi alla facoltà di medicina sono a numero chiuso, perché i vari governi non hanno avuto intenzione di assumere, per investire in altri settori, come se noi vivessimo in un paradiso di giovani e forti dove non si ammala nessuno; gli sprechi, gli appalti e i concorsi truccati, la disorganizzazione, le ruberie di amministratori senza scrupoli (i casi della Sanità umbra, veneta, lombarda ne sono un esempio) hanno tolto risorse preziose alla sanità pubblica e le hanno impedito di funzionare come dovrebbe; i finanziamenti al settore privato e una normativa favorevole (vedi, ad esempio, l’intramoenia) hanno fatto il resto.
Quindi non mi stupisco che il Governo (sempre con un decreto, dal momento che il Parlamento tace) decida di serrare tutto e di tenerci prigionieri in casa, nonostante il danno sociale ed economico colossale. Non ci sono tamponi, reagenti, strutture e personale sanitario sufficienti per individuare i positivi, che a questo punto saranno – o saremo, chissà – centinaia di migliaia.

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