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Perché diciamo che Nazzareno è morto?

martedì 19 febbraio 2019
di Fausto Cerulli
Perché diciamo che Nazzareno è morto?

Ciao, Nazzareno, amico mio e di tutti: sono passati due mesi da quando sei passato a miglior vita ( e speriamo che sia davvero migliore ché questa non è che sia gran vita) e voglio dirti cosa è successo in questi brevi e lungi giorni. Magari tu saprai tutto, informato da qualche angelo. Comunque dopo pochi giorni dalla tua dipartita, ha chiuso la Libreria de Sette: te lo dico perché conoscevo il tuo amore per la cultura. La domenica mattina, tra i tanti quotidiani che tu offrivi generosamente ai lettori che frequentavano la tua casa- bar, cercavo invano il supplemento culturale del Sole 24 ore, una specie dell’americano New Yorker o del francese Le monde del venerdì, con supplemento dedicato ai libri. Chiedevo e mi rispondevano che quell’inserto lo prendevi tu e sono sicuro che lo leggessi tu, curioso di quanto accadeva nel mondo della cultura.

Comunque sono sicuro che tu, dal so dove, abbia assistito al tuo funerale, con Don Luca che ti dedicava una commossa omelia, commossa tanto da fargli superare la sua leggera balbuzie, così gradevole da sentirsi, con quell’accento alla Woody Allen. Ed avrai notato come Guido Barlozzetti, generalmente ironico e dissacrante, abbia dovuto interrompere il suo discorso commemorativo perché un singhiozzo di commozione  gli si fece nodo alla gola. La Chiesa era affollata di rimpianto, ed anche io che poco frequento chiese e conventi, non avrei lasciato quella chiesa, quel triste giorno, neppure per tutto l’oro del mondo, e sì che ne avrei bisogno.

Come vedi, Nazzareno, cerco di scherzarci su, e sono certo che tu mi capirai, con la tua impareggiabile ironia quasi inconsapevole, mai ostentata. Sai, Nazzareno, ad informarci della tua morte fu proprio Barlozzetti al telefono, ed io e mia moglie restammo senza parole e con quasi lagrime. Da Porano,dove viviamo, le notizie tristi ci giungono sempre per telefono: e fu così che sapemmo della morte di Francesco Satolli e di Gianna Leoni, a noi cari come lo fosti tu,anche se del tuo esserci tanto caro non ci eravamo forse accorti se non quando sei morto; e forse non lo sapevamo prima perché ti consideravamo una istituzione orvietana e le istituzioni, in genere, non hanno in uso il morire.

Qualche giorno fa mi è accaduto, per la prima volta, di affrontare la cosiddetta passeggiata archeologica, e mi sono soffermato davanti alla chiesetta che ancora chiamano del Crocifisso del Tufo, dove ti sei accasciato, in solitaria silenziosa quiete. Da lì si vede la geometrica precisione delle tombe etrusche; e anche tu avrai gettato lo sguardo quasi profetico, scansando allo sguardo l’orrenda autostrada del sole, con le auto come formiche. Nella tua casa-bar campeggia ancora una tua foto, il sorriso dolce e quieto, ed accanto il corsivo che scrissi per te il giorno della tua morte, e di cui sono orgoglioso perché lo scrissi per te, cercando di evitare ogni esagerata retorica, che non ti sarebbe piaciuta.

Mi vengono in mente molti episodi surreali che hanno segnato la tua non lunga vita, ma non lo faccio perché tu li conoscevi e li conosci: ed uso il presente perché ti sento presente. Ti dico solo che ora non gioco a prendi tre e paghi uno, come feci con tua madre, la indimenticata Rosina. E sono certo comunque che se avessi preso tre paste per pagarne solo una, tu mi avresti sussurrato, perché nessuno ci sentisse: avvocato, le paste sono tre, e me ne avresti fatta pagare solo una. Nel bar ancora il tuo passo felpato,il tuo sorriso dolce quasi di fanciullo. Ma non voglio commuovermi troppo e non voglio commuovere. Per questo mi piace concludere con un paradosso involontario dei parigini,che anche dinanzi alla morte dicono: c’est la vie. Buona vita dovunque sei, amico Nazzareno.