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Sulla fecondità morale di una non più rinviabile rivoluzione culturale

lunedì 16 ottobre 2017
di Mario Tiberi
Sulla fecondità morale di una non più rinviabile rivoluzione culturale

Se l’appartenente al genere umano è stato definito, da gran parte della filosofia antica fino a quella contemporanea, come “essere ragionevole” e come “possibilità di auto-progettazione”, ciò non significa necessariamente che il suo pensare, il suo scegliere e il suo agire, anche se razionali, siano infallibili. Certo, il “logos” più specifico dell’Homo Sapiens, in quanto “ragione e capacità di eloquio”, è potenzialmente infinito e gli conferisce quel tratto di unicità che differenzia il pensare e il dialogare dell’essere uomo da quello di ogni altro essere vivente. Ed è proprio codesta unicità che caratterizza l’esistenza umana, qualificandola come irripetibile.

La strutturale finitudine dell’uomo, alla quale corrisponde una vita biologica transitoria e dunque scandita da un inizio e da una fine, non impedisce di riempire di significati ogni atto, e di pensiero e di azione, compiuto in quella rete di relazioni che quotidianamente intratteniamo con ciò e con chi ci circonda. E’ in questo modo che noi diamo un senso alla nostra vita e la definiamo come nostra, nella sua contingenza e precarietà, ma anche nel suo valore, nella sua singolarità ed eccezionalità.

La limitatezza della condizione umana non può essere considerata soltanto alla stregua di un ostacolo, di un difetto, di una imperfezione. E’ certamente vero che l’esistenza di ognuno di noi è connotata dall’imperfezione e dall’errore, ma ciò deve essere valutato come risorsa, invece che come carenza. Il fatto che il nostro agire nel mondo può essere fallibile e sottoponibile a dubbio può forse, infatti, significare che ciò che pensiamo e operiamo è sempre potenzialmente sbagliato o, non piuttosto, che l’errore ci permette di spingerci ancor di più oltre, di valicare l’orizzonte degli orizzonti, di visualizzare le realtà da più prospettive con lo scopo di migliorarle?

Il dubbio allora non è indice di errore, ma di fecondità! Il nostro essere ragionevoli e progettanti significa, quindi, avere la capacità e la volontà di ragionare, di mettere in discussione e sottoporre a critica, di scegliere e intervenire attivamente, insieme agli altri, per modificare e cambiare, per modificarci e cambiarci. E’ solo grazie a questi intrecci, così vitali e propositivi, che la nostra esistenza e quella di tutti procede in avanti, solo così cresce e si arricchisce la nostra convivenza sociale, la nostra civiltà, che forse stiamo egoisticamente trascurando e pian piano perdendo, ed anche la storia plasmata di eventi che, a loro volta, non possono essere animati se non da persone.

Non v’è dubbio, e lo ribadisco, che il nostro pensare e il nostro agire è intrinsecamente limitato: ogni nostra scelta, o iniziativa, o progetto sono in parte determinati da ciò che esiste già e da ciò che già è esistito. Ma proprio per questo il nostro impegno e il nostro dovere è quello di proseguire, di cambiare laddove è necessario, di migliorare la pessima contingenza dell’attualità.

Il dubbio e la consapevolezza di essere imperfetti, e quindi di sbagliare, non ci deve paralizzare ma, al contrario, ci deve spronare verso un progresso conoscitivo e pragmatico che è e sarà il benessere dell’umanità intera. Il nobile animale razionale e progettante, che noi tutti siamo, non può sottrarsi a tale impegno: è la nostra fatica, ma è anche il nostro appagamento. Anche in questo risiede l’unicità e la forza della nostra esistenza.

Si tratta, prendendo a prestito una splendida frase di Kundera, dell’insostenibile leggerezza dell’essere per cui, forse, il nostro fardello più oneroso è la superficialità con la quale siamo portati a considerare ciò che ci circonda mentre, di converso, la nostra ricchezza scaturisce dalla percezione di essere in grado di realizzare un qualcosa che ci appartiene, un qualcosa di unico e irripetibile e che, inevitabilmente, lascerà una traccia in direzione non sempre e non solo di un “Io”, ma di un “Noi”.

L’uomo, da sempre, ha cercato di spiegare e di spiegarsi, di risalire fino alle cause ultime di ogni fenomeno; ciò è avvenuto attraverso la forma più arcaica del mito sino ad arrivare alle sempre più matematiche teorie scientifiche. Spinto dallo stupore di fronte a quanto vi è di sconosciuto, dalla curiosità di penetrarvici dentro e addirittura dall’ancestrale timore dell’ignoto, ha costantemente tentato di trovare il perché di ogni accadimento al fine di approdare alla tranquillità del noto. Quello che, oggi, viene quasi spontaneo domandarsi consiste nella perplessità se è ancora esatto affermare che il non sapere e il non conoscere ci getta nel panico o se, invece, avviene il contrario.

E’ forse più semplice e più comodo non sapere per avere minori responsabilità o per affrontare meno sacrifici? Si teme di più, conoscere o non conoscere? Rimanere nel proprio ristretto orticello offre più serenità rispetto all’interessarsi, al prendersi cura delle nostre esistenze e al porgere la mano e la mente per un contributo comunitario? L’albero della conoscenza è terribilmente alto, ma non arrampicarcisi sopra ha tutto il sapore della pochezza e della viltà.