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La inconcepibilità dell'insipienza

domenica 23 aprile 2017
di Mario Tiberi
La inconcepibilità dell'insipienza

Una delle discipline maggiormente praticate e cimentate dal genere umano nel corso dei secoli, quando più o quando meno, è ravvisabile nella frequentazione delle palestre del sapere. Gli antichi le chiamavano “Ghimnasium” poiché a loro si accedeva con il corpo nudo come nuda, cioè scevra da preconcetti, deve essere la mente nell’approdare alle fonti della conoscenza. Chi pensa che la cultura sia un orpello strumentale da gettare nella mischia quando si è all’angolo e, per uscirne, ad essa ci si possa aggrappare, costui pensa e discerne malamente poiché non è nel suo solo utilizzo che va ricercata la sua ragion d’essere quanto, piuttosto, nella sua natura e capacità di elevazione dell’intelligenza umana, originariamente acerba e primitiva.

In altri termini: ci si nasconde e ci si barrica dietro il logo cultura quando, per distogliere le vigili attenzioni, si pone in essere il maldestro tentativo di voler dissertare su tutto mentre, invece, non si ha nulla da proferire perché fin da principio non si aveva nulla né di importante e né di significativo da proporre. Andiamo per gradi e vediamo di accendere, con il lume dell’intelletto, anche una sola e flebile fiammella sulla spinosa questione. Per cultura, secondo i più accreditati filologi, deve intendersi il complesso delle conoscenze intellettuali e delle nozioni di scienza le quali, senza ombra di dubbio, contribuiscono in maniera preponderante alla formazione dell’educazione e dell’istruzione della personalità individuale; anche, epperò, sono da ricomprendervi tutte quelle pratiche e tradizioni collettive di una società o di un nucleo sociale e che conducono alla costruzione di una civiltà.

Da codesta premessa è possibile distinguere, per un verso, tra una cultura di base o generale costituita da un fulcro elementare di conoscenze e nozioni ritenute indispensabili per ogni individuo che intenda collocarsi all’interno di una società in cui desidera vivere e, per l’altro, da una cultura di massa che è quella prodotta e diffusa in modo standardizzato per due o più individui i quali, con espresso o tacito patto reciproco, vengono da essa legati ad un comune sistema di vita. Più agevole diviene l’avvicinarsi ad una corretta definizione dell’insipienza la quale, alla luce delle considerazioni che precedono, altro non è se non l’ottusità di mente e la stoltezza di coloro che non sanno e, ancor peggio, di coloro che non si curano affatto di colmare la propria ignoranza e le proprie lacune intellettuali e conoscitive.

Sull’insipienza trova terreno fertile, per germogliare e fruttare, la cosiddetta cultura subalterna: cultura di sottomissione, riscontrabile in ogni popolo rimasto a lungo in dipendenza di un pensiero unico o dominante e con effetti di gravi disgregazioni sociali fino a sfociare in forme, spesso violente e incontrollabili, di ribellione e rivolta. Che la cultura unisca, anche i più distanti, e l’insipienza divida, anche i più prossimi, è a questo punto un assioma che non necessita di dimostrazione alcuna. Mi pare infatti di poter affermare, oltre ogni ragionevole dubbio, che quanto sta accadendo negli ultimi tempi in Italia, e di conseguenza anche in Orvieto, possa essere ricondotto ad uno scenario in cui chi tira la corda della risorgenza morale, ispirata dalla cultura, trova il suo contraltare in chi tende a spezzarla per ottusità e stoltezza.

E se un drappello di disinteressati operatori sociali e di eterogenei e poliedrici intellettuali orvietani, non di sedicenti depositari della “Intellettualità” che tanto sapore hanno di snobismo oligarchico ed accademico, si aprono alla società civile e alla sua dirigenza politica per tentare di offrire valide soluzioni ai problemi di tutti, non li si guardi con diffidenza e spocchiosa altezzosità ma, bensì, con il rispetto e la giusta considerazione che essi meritano poiché non è loro intenzione di prendere “in mano” la città, ma di prenderla “per mano” ed accompagnarla verso lidi migliori. A mo’d’esempio, valga una per tutte l’ancora per noi aperta questione sulla destinazione d’uso del complesso “Ex Ospedale Civico”.

Del resto, non si tratta altro che di imprimere impulso ad un laboratorio di sperimentazione concettuale del pensiero politico e che, mi si perdoni il neologismo, suggerirei di denominare “Filofucina”: il prefisso “filo” per indicare il senso della passione amorosa e, “fucina”, per designare la forgia che trasforma la materia grezza in prodotto modellato e finito.
La scommessa è già sul piatto; si attendono dei seri e volenterosi giocatori!

P.S.: ho preferito scrivere di questioni inerenti la cultura e non di aggrovigliarmi nel ginepraio di ghiribizzi arzigogolati poiché, per coscienza e diligenza, non è mio costume di soffiare nel vento o di portare legna nel bosco.