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A proposito di San Remo e di San Francesco

lunedì 15 febbraio 2016
di Angela Marina Strano
A proposito di San Remo e di San Francesco

Da pochi giorni, si è concluso il Festival della Canzone Italiana di Sanremo e, come sempre, si discute sui vincitori e le canzoni. La domanda straniante di un alunno, che ha chiesto in classe se “San Remo” fosse il santo protettore della musica, mi ha fatto, oltre che sorridere, pensare ad una forma più antica di canzone. Infatti, nonostante sia Santa Cecilia la patrona dei cantanti, mi è venuta in mente la figura di San Francesco d’Assisi.

Grazie al suo curriculum documentato, Francesco oggi potrebbe fregiarsi a buon diritto della qualifica di “sommo rappresentante” dei cantanti. Al tempo dei primi discorsi per le sue colline, alcuni balordi lo avevano preso, picchiato e buttato in un borro innevato da cui lui uscì cantando. E cantando se ne sarebbe andato a predicare; e con grande successo, per di più, grazie al modo particolare di parlare alla folla. Predicava, infatti, in un volgare semplice e spontaneo e aiutandosi, proprio come farebbe uno showman, con i gesti, la mimica, il canto e la musica, con maestrìa retorica. Le sue performances assomigliavano a musical, commedie religiose a metà tra la predica e lo spettacolo dei cantastorie. Inoltre, nel 1225, alla fine della sua vita, compose a sua consolazione e per edificazione del prossimo quella splendida lode che è il Cantico delle creature.

Non solo le parole, ma anche una musica d’accompagnamento, se vogliamo prestar fede alla Leggenda perugina, e cominciò a istruire un gruppetto di frati perché andassero a ricordare la salvezza di Cristo. Francesco non poteva farlo in prima persona e si figurò allora un altro modo per colpire l’immaginazione della folla: uno dei frati, di solito il più bravo a parlare in pubblico, esortava l’uditorio e subito dopo un coretto doveva intonare il cantico. Persino in punto di morte Francesco si fece cantare il cantico per farsi coraggio e trovò il modo di aggiungere ancora un’altra strofa dedicata alla morte.

Nel Duecento, gli italiani ritrovavano il loro genio a cominciare dalla poesia, anzi da una preghiera in volgare umbro, né provenzaleggiante né curiale né mondana: la più bella preghiera che gli italiani posseggano, o bella almeno quanto il Pater noster perché risolta integralmente e totalmente nel suo contenuto, dal momento che la bellezza è nella vita stessa che canta. A differenza del Pater noster, infatti, non chiede, ma umilmente loda. L’Italia comunale creerà, con Francesco, la prima letteratura veramente grande d’Europa e al vertice di questa letteratura, di questa rivolta dello spirito che modella la parola, si ergerà Dante che della canzone sarà il primo teorizzatore. Nel De vulgari eloquentia, la definisce: “un’opera compiuta di chi compone parole in armonia tra loro in vista di una modulazione musicale”. Sarebbe dunque sbagliato affermare che l’Umbria ha dato i natali, oltre che a San Francesco, pure alla canzone?