Debito pubblico e fiscal compact
Il tema della riduzione del debito pubblico italiano può sembrare penalizzante per la nostra economia, per le nostre imprese, per le nostre famiglie (e quindi per la tenuta sociale del sistema-Italia) ma in realtà, io credo che se provassimo a paragonare il sistema-Italia proprio ad una famiglia troveremmo che non completamente sbagliato sia l'obiettivo (riduzione del debito pubblico) e che, semmai, si debba invece ragionare su quale possa essere la strada migliore, meno pericolosa, più condivisibile, per raggiungere l'obiettivo stesso.
Non ho preso caso l'esempio della famiglia perché è quello secondo me più calzante: se in un nucleo familiare che guadagna, ad esempio, 30.000 euro l'anno, nello stesso periodo si spende il 3 per cento in più del possibile si da vita ad un deficit annuo di 900 euro, deficit che dal secondo anno diventa automaticamente debito e che, di anno in anno va a sommarsi al deficit annuo. Così, avverrà che al secondo anno si avrà un debito di 900 euro e un deficit di 900, al terzo anno il debito sarà di 1.800 euro ed il deficit (o disavanzo) di 900, al quarto anno avremo debito a 2.700 euro e deficit di 900 euro e cosi via. Dopo venti anni di situazione costante in questi termini, si avrà un debito di 17.100 euro ed un disavanzo annuale dei soliti 900 euro. In più, l'inflazione reale o quella impositiva avranno eroso, anche di poco, i 30.000 euro annui riducendo anche la disponibilità annua spendibile, peggiorando la condizione economica e la posizione sociale di quella famiglia.
La stessa cosa avviene, più o meno con il bilancio dello Stato. La possibilità di sforare di un po', anche solo di un modesto 3 per cento rispetto al prodotto interno lordo (circa 45 miliardi di euro a regime attuale), rappresenta certamente una fonte di ossigeno, dentro ciascun anno, per le casse pubbliche ma si trasforma di anno in anno in un pesante fardello, condito anche degli interessi, caricato sulla spalle dei cittadini italiani. Un fardello che, ad oggi, è rappresentato da un debito pubblico consolidato di circa 2.100 miliardi di euro a fronte di un prodotto interno lordo intorno ai 1.600 miliardi di euro.
In questo quadro economico, che costa al nostro Paese, alla nostra economia, alle nostre imprese, alle nostre famiglie, circa 80 miliardi di euro l'anno di interessi, si può - onestamente - restare inermi a guardare? Si possono mantenere ancora le condizioni che hanno generato questa situazione, sapendo quindi che ogni anno il nostro appesantimento complessivo riesce ad aggirarsi intorno ai 120 miliardi di euro tra deficit annuo e interessi sul debito?
I punti veri di confronto sono - secondo me - due: il primo è rappresentato dalla scelta tra permanere oppure uscire dall'Europa unica e dall'euro; il secondo, è rappresentato dal come restare eventualmente in Europa (con un ruolo da protagonisti e non da sudditi) e, quindi, da quali scelte di politica economica e sociale mettere in campo e da quali richieste promuovere all'interno del circuito politico europeo per rispettare gli impegni che il tutto comporta.
Io credo, innanzitutto, che in Europa e nell'euro si debba restare. Così come credo che il ruolo dell'Italia in Europa possa essere diverso, più forte, più autorevole, più propositivo. Ed anche, permettetemelo, più sfrontato, nel senso di più predisposto a chiedere anche di poter ottenere (dall'Europa) oltre ad essere costretti a dare.
Ovviamente, per poter chiedere - e pretendere - occorre essere in regola e io credo che essere in regola significhi rispettare i parametri che ci vengono chiesti e imposti. Il punto, quindi, è sul come rispettare gli impegni richiesti ed assunti, con quali strategie e dentro quale prospettiva. Se entriamo in quest'ottica, l'azzeramento del deficit annuale di bilancio - al di là del vincolo scritto in Costituzione - non può che essere il primo obiettivo da raggiungere. Non possiamo più permetterci come sistema-paese di sforare il nostro bilancio nazionale, ogni anno, di circa 45 miliardi di euro. Perché ce li ritroveremmo comunque sulle spalle negli anni a venire e perché il costo di quello sforamento sarebbe ancora e successivamente più elevato sia in termini finanziari che sociali.
La prima domanda che si pone, allora, è il come e dove trovare i 45 miliardi di euro che servono per evitare il deficit del 3%. Proviamo a fare, dunque, qualche prima considerazione in questa ottica.
Il nostro bilancio dello Stato, macro economicamente parlando, si aggira attorno agli 800 miliardi di euro, dei quali circa 80 spesi ogni anno in interessi sul debito pubblico consolidato e pregresso. Dei circa 720 miliardi di euro che restano, circa 300 sono spesi per il funzionamento della macchina pubblica, ossia del complesso della pubblica amministrazione, suddivisi tra spesa per il personale (circa 130 miliardi di euro) e spesa per acquisizione di beni e servizi (circa 170 miliardi di euro l'anno). Altri 20 miliardi l'anno - circa - (stando anche ad uno studio redatto da un importante sindacato italiano) li spendiamo alla voce "costi complessivi della politica". Il totale porta a 320 miliardi di euro l'anno. 320 miliardi su 720 di spesa complessiva annua, oltre il 40 per cento! Può essere considerata, questa, una situazione normale? Può essere, questa condizione, prorogata all'infinito in questi termini? Io credo di no. E provo a spiegare, allora, come se potrebbe uscire.
A fronte di questi dati sulla spesa pubblica italiana io credo che il primo passo da compiere non possa prescindere da una seria azione di compressione lineare delle uscite che, senza andare ad incidere sulla spesa per la sanità (circa 100 miliardi l'anno), per l'ordine e la sicurezza (circa 10 miliardi l'anno) e per la tutela del territorio (10 miliardi circa) e quindi andando ad incidere su un valore - al netto del costo degli interessi sul debito - di circa 600 miliardi, si possa e si debba prevedere una riduzione di spesa percentuale annua almeno pari ad un terzo del famoso rapporto deficit/pil ossia, in valore assoluto, circa 15 miliardi di euro (pari al 2,5 per cento dei 600 miliardi).
Fatto questo passaggio, il successivo non può che essere obbligatoriamente rappresentato da una drastica riduzione dei costi diretti e indiretti della politica, a tutti i livelli istituzionali ed in tutte le sue possibili accezioni e ramificazioni: trasferimenti, rimborsi, spesa sostenuta per la rappresentanza politico-istituzionale a tutti i livelli, consigli di amministrazione, auto, immobili, consulenze, a partire soprattutto dagli enti non elettivi per giungere a tutti gli altri. Ipotizzando una riorganizzazione al ribasso almeno del 33 per cento (un terzo) il risparmio che si potrebbe ricavare ammonterebbe a circa 6 miliardi di euro l'anno.
Evidente che una volta tagliati i costi diretti e indiretti della politica istituzionale, gradino successivo sia il capitolo di spesa più importante del bilancio dello Stato ossia quello della spesa della pubblica amministrazione, quel capitolo che ammonta a circa 300 miliardi l'anno e che dunque, anche depurato del taglio lineare del 2,5 per cento al netto di sanità e sicurezza, raggiunge ampiamente i probabili 290 miliardi.
In questo capitolo, dove possiamo ampiamente ipotizzare che 170 miliardi riguardino i costi per beni e servizi e 120 - circa - le spese di personale, il ragionamento appare tutt'altro che semplice e va dunque affrontato un gradino alla volta.
Con riferimento ai 170 miliardi che concernono l'acquisizione di beni e servizi, anche considerando che un 25 per cento di tale importo (circa 45 miliardi) corrisponda a spese necessarie, inderogabili, indifferibili ed incomprimibili, sui restanti 125 miliardi una riduzione almeno pari al 10-12 per cento apparirebbe non solo utile ma - francamente - anche di buon senso e potrebbe contribuire ad un risparmio annuo di circa 15 miliardi di euro (un punto di Pil, non certo noccioline!).
Per quanto concerne invece i costi del personale (120 miliardi di euro), il ragionamento appare certamente più complesso ma comunque affrontabile. Il primo passo non può che interessare il comparto della dirigenza pubblica, sul quale appare inderogabile la revisione della contrattazione e dei livelli economici nonché una riorganizzaazione generale, con l'obiettivo di ridurre almeno del 30 per cento la spesa complessiva (2 miliardi di euro di risparmi).
Dei circa 3,2 milioni di dipendenti pubblici, depurando questa cifra dei dirigenti e del personale già contrattualizzato a 40 ore settimanali, si potrebbe ipotizzare che una revisione dell'orario di lavoro del pubblico impiego al rialzo (da 36 a 40 ore settimanali, appunto), a parità di salario, potrebbe interessare circa 2,5 milioni di addetti, dando vita ad un monte ore aggiuntivo di 10 milioni di ore settimanali, aprendo lo spazio - dentro una riorganizzazione complessiva dell'intero comparto - per una possibile riduzione di personale almeno pari a 220.000 unità, con un risparmio complessivo quantificabile - comprensivo dei risparmi per minori uffici e servizi ulteriori - in circa 7 miliardi di euro.
Sommando le cifre degli interventi proposti, si evince rapidamente che i 45 miliardi di euro di risparmio annuo di spesa necessari per evitare il deficit del 3 per cento sarebbero stati raggiunti. Pur tuttavia, volendo scegliere la via moderata al raggiungimento dell'obiettivo prefissato, appunto il pareggio di bilancio annuo al fine di fermare l'incremento del debito, si potrebbe ipotizzare che l'obiettivo possa essere raggiunto in due anni e che ed esempio, quindi, nel 2015 si possano risparmiare anche solo 20-25 miliardi di euro (dimezzando il deficit annuale) e che l'obiettivo completo dell'azzeramento del deficit si possa raggiungere a decorrere dal 2016, contribuendo comunque ad evitare - in due anni - un aumento ulteriore del debito pubblico di circa 65 miliardi di euro, con un ulteriore risparmio, per minori interessi, di circa un miliardo di euro.
Quanto invece al provvedimento relativo al cosiddetto "Fiscal Compact", ossia quello che prevede la riduzione del debito pubblico italiano dall'attuale 130 per cento del Pil al 60 per cento del Pil nell'arco temporale di 20 anni, (in termini numerici dagli attuali 2100 miliardi a 9600 miliardi di euro), due considerazioni appaiono innanzitutto necessarie: la prima, vertente sulla condivisibile necessità di ridurre il debito accumulato al fine non solo di ridurre la spesa per interessi che oggi si aggira attorno agli 80 miliardi di euro annui ma anche di liberare risorse in favore dello sviluppo; la seconda, sulla contestuale necessità di modificare in ambito europeo - almeno in parte - i termini contabili e temporali del progetto prevedendo ad esempio un allentamento del vincolo temporale legato alla crescita del Pil ossia dell'allungamento di 1 anno del termine obiettivo per ciascun anno in cui si verifichi una crescita del Pil nazionale almeno pari all'1 per cento (per l'Italia circa 15-16 miliardi di euro).
Questa è la prima battaglia da mettere al centro dei programmi per il futuro dell'Unione Europea (si vota il prossimo 25 maggio). Nell'ipotesi attualmente in vigore, infatti, il nostro Paese al fine di raggiungere l'obiettivo e di non incorrere in sanzioni, dovrebbe reperire - a crescita zero del Pil, ipotesi peggiore - circa 60 miliardi di euro l'anno; ipotizzando invece che in almeno la metà dei venti anni previsti per raggiungere l'obiettivo il Pil nazionale cresca dell'1% la cifra da reperire scenderebbe a circa 35-40 miliardi di euro annui (ben 25 in meno, quasi due finanziarie nazionali!)
In parallelo, occorre intraprendere una grande battaglia sugli investimenti dell'Unione Europea, sia sui fondi messi a disposizione e sulla loro destinazione, sia - ancor più - sui parametri e sulle condizioni per accedervi. Sarebbe infatti opportuno che i trasferimenti dell'Unione ai paesi membri, in conto capitale, avessero come destinazione prioritaria la difesa del suolo, le infrastrutture pubbliche e la qualità della vita, attivando - per la prima volta nella storia un principio di "utilità" degli interventi: per ogni miliardo di trasferimenti in conto capitale ciascun Paese destinatario dovrà dimostrare di risparmiare la stessa somma in termini di spesa pubblica ordinaria riferita al contesto finanziato, prevedendo nei relativi bilanci annuali opportune riduzioni annuali delle somme destinate a manutenzioni ordinarie (ed esempio, nel caso di un finanziamento di un miliardo di euro destinato al miglioramento di in una strada, dal bilancio dell'ente proprietario dovranno ridursi di 100 mila euro l'anno, per diedi anni, le spese di manutenzione ordinaria dell'arteria interessata dal finanziamento).
Quanto all'abbattimento annuo del debito, restando nei parametri della proposta legata alla crescita del Pil, molteplici possono essere le strade percorribili, purché si ponga a principio base quello per cui non si operino scelte che possano far stagnare o peggio comprimere il Pil: occorre, in sostanza, produrre innanzitutto politiche di crescita in grado di mantenere costante il livello degli investimenti senza intaccare la capacità di spesa delle famiglie e la produttività delle imprese.
In concreto, se davvero si vuole ridurre il debito pubblico accumulato dal nostro Paese, nessuna misura di carattere ordinario può essere sufficiente senza mettere in ginocchio le famiglie e le imprese e, con esse, l'intera economia del Paese.
L'unica soluzione in grado di traghettare il nostro Paese, sul versante del bilancio consolidato, verso il rispetto del Fiscal Compact (che, ripeto, non va combattuto ma gestito perché prima o poi dovremo renderci conto che il debito pubblico italiano deve essere non solo fermato ma anche abbattuto) resta quella di rinunciare definitivamente alla messa sul mercato di titoli pubblici (se non in minima parte, ma a breve durata e destinati esclusivamente al finanziamento in conto capitale di opere pubbliche) liquidando entro un anno tutti quelli sottoscritti, attraverso la sottoscrizione di un prestito straordinario con la Banca Centrale Europea ed altre
Banche internazionali di valore pari al complesso del nostro debito pubblico nazionale, ottenendo già nell'immediato un primo effetto positivo: quello di uscire dalla fluttuazione e dal ricatto al rialzo dei tassi di interessi per passare ad un ammortamento a tasso fisso e, quindi, a rata annua fissa e certa. Posto il nostro debito pubblico complessivo a 2100 miliardi di euro, ipotizzata una durata del prestito almeno trentennale e riuscendo a sottoscrivere un tasso di sconto annuo intorno all'1 per cento (cioè pari a 4 volte il tasso di sconto dei prestiti Bce alle banche) si otterrebbe una rata annua, a partire dal secondo anno, di circa 81 miliardi di euro ossia pari - all'incirca - alla spesa sostenuta dal nostro Paese per pagare ogni anno gli interessi sul nostro debito pubblico.
Con una differenza, però, certamente di non poco conto: che gli 81 miliardi di euro non sarebbero solo interessi ma rappresenterebbero la somma delle voci in quota capitale ed in quota interessi, il che starebbe a significare una riduzione immediata del debito pubblico consolidato non inferiore a 60 miliardi di euro l'anno iniziale per crescere poi di anno in anno.
Con il risultato di abbassare il debito pubblico nazionale dopo 20 anni, cioè nell'ambito del parametro temporale imposto dal Fiscal Compact, a circa 770 miliardi di euro, ossia ben al di sotto del tetto del 60 per cento del Pil, stimabile - a parametri attuali - in circa 900-950 miliardi di euro.
Un siffatto percorso, non potrebbe che mostrare un sistema Italia perfettamente in regola davanti all'Unione Europea e all'Europa intera, economica e politica, con il risultato di avere tutte le condizioni per chiedere e sostenere investimenti in conto capitale da destinare alle infrastrutture, alla difesa del suolo, all'assetto idro-geologico, al lavoro, tanto per fare qualche modesto esempio, unendo così la sicurezza dei cittadini ad un nuovo processo di sviluppo in grado di generare occupazione e rilancio economico diffuso.

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