opinioni

In fondo al sacco... la gioia e la speranza

venerdì 31 luglio 2009
di Mario Tiberi, iscritto P.D. Orvieto centro

A dispetto di un anonimo "Liberale" torno a tediare da personaggio scomodo e fors'anche senza arte e né parte.
Il cambiamento epocale avviatosi negli ultimi decenni del secolo scorso e costellato da molteplici crisi di modelli, di ideali e di appartenenze socio-politiche, sta producendo effetti che stanno andando oltre le previsioni di molti attenti ed acuti osservatori. La fine dei blocchi contrapposti ha trascinato un indebolimento delle ideologie che avevano retto la politica italiana e non solo nei cinquant'anni successivi alla seconda guerra mondiale. Si sono così, da un lato, liberate energie assopite nella società e, dall'altro, covati nuovi corporativismi e campanilismi. La globalizzazione e l'intensa modernizzazione hanno fatto il resto...
Di fronte a tutto ciò, lo smarrimento, l'incertezza del presente e del futuro, il deprezzamento del senso etico e di quello civico, hanno preso progressivamente corpo e viralizzato le fondamenta dello Stato post-illuministico.

In questo crogiuolo, la crisi delle ideologie e delle identità ha travolto anche un elemento specifico della politica. La caduta del muro di Berlino è coincisa con le grandi modifiche dell'economia e della società. La modernità ha cambiato il mercato del lavoro, l'organizzazione della produzione, le regole del gioco finanziario: in sostanza il capitalismo ha subito un'evoluzione complessa, ricca di opportunità, ma anche di problemi e le conseguenze negative le stiamo misurando nell'attuale drammatica crisi.

Chi paga di più il prezzo di queste trasformazioni è la Sinistra. Non solo la Sinistra più legata alla storia sociale ed operaia, ma anche la stessa socialdemocrazia. La fine del comunismo non ha lasciato diffusi rimpianti, ma il vuoto non è stato colmato appieno. Il socialismo ha tentato la via democratica con incisività, ma i troppi errori commessi gli hanno tarpato le ali. Il tentativo più coraggioso è stato fatto dalla socialdemocrazia e in Germania e in Inghilterra ne abbiamo avute le prove con i loro più autorevoli esponenti divenuti eccellenti Capi di Governo. L'esperienza italiana è stata bloccata dalle troppe divisioni interne e dalla mancata o troppo lenta evoluzione della componente principale, il P.C.I.

Resta il fatto che la socialdemocrazia ha avuto un ruolo protagonista e propositivo e, nonostante il conclamato fallimento del liberismo, comunque annaspa. Non appare più in grado di rappresentare quella prospettiva di buongoverno, di moralità, di sicurezze e di identità. Le difficoltà vanno, però, oltre l'orizzonte socialdemocratico ed è tutto lo schieramento progressista ad uscirne indebolito.
Lo stesso cattolicesimo democratico, che pure non ha al suo passivo il fallimento storico del socialismo reale, appare annebbiato, non tanto per debolezza dei suoi valori portanti, ma per caduta di incisività nel proporli in chiave moderna.
A questo punto è necessario andare oltre: la ricerca, ancora incompiuta, ma chiaramente indirizzata al nuovo, del Partito Democratico di dar vita ad un soggetto di rottura con il passato vuol significare, per tutte le istanze progressiste, costruire risposte nuove alle domande che la modernità ci pone.

Tra le principali questioni che mettono insieme aspetti programmatici e politiche di governo, ne evidenzio due. La prima riguarda quella che, personalmente, considero la primaria immagine caratterizzante le attuali società mature: l'impoverimento delle classi medie. La ricchezza e la povertà sono gli estremi di una condizione sociale che coinvolge la maggioranza della popolazione dove la massificazione ha trasformato ceti sociali che erano ben distinti tra loro nel reddito, nei costumi, nelle prerogative, in un'unica grande palude che possiamo a ragione definire come i nuovi "ceti popolari". Non che tutti siano uguali; le differenze di reddito e di cultura permangono, ma la condizione generale è la stessa: la crescente fatica quotidiana, non solo materiale. La ex classe operaia sta dentro questo nuovo mondo assieme alla piccola e media borghesia. Le conseguenze, anche elettorali, sono evidenti e una visione pauperista dei fenomeni sociali non coglie questo snodo cruciale e decisivo per il futuro delle politiche progressiste.

La seconda riguarda la natura e la qualità della democrazia. La democrazia politica, quella imparata a scuola, caratterizzata dal diritto al voto e dai diritti civili, che amiamo e vogliamo diffondere nel mondo, non basta più per governare le grandi questioni economiche e sociali. Non so se la definizione di "economia sociale di mercato", così abusata e cara alla Destra, risponda davvero all'esigenza di una nuova idea di capitalismo. Preferisco parlare di democrazia economica, intendendo con ciò anche nuove forme di partecipazione e di governo delle sempre più accelerate dinamiche sociali. Si pensi al ruolo crescente di nuove rappresentanze, come i consumatori o gli ambientalisti o le associazioni di cittadinanza attiva; insomma il complesso mondo degli emergenti che si sta a pieno titolo affiancando alle tradizionali, talvolta obsolete, ma non superate rappresentanze del lavoro e delle professioni.

La conclusione politica di queste riflessioni è la seguente: ciò che serve è una nuova stagione del Pensiero e dell'Azione ed anche, mi pare di poter dire, di un rinnovato entusiasmo fondato sull'idea che siamo, nonostante tutto e con tutte le difficoltà dell'oggi, in un'epoca "costituente".
Dobbiamo, dunque, coraggiosamente lasciarci alle spalle il novecento e immergerci nella Storia di oggi e di domani, cogliendo i "segni dei tempi" attraverso quell'approccio, anche soggettivo, che ci viene dal cuore della nostra migliore tradizione culturale rappresentata, tra le altre, dall'incipit della Enciclica Paolina "Gaudium et Spes" che recita: "Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi sono le nostre".
Quanta politica democratica e di sinistra potrebbe ricominciare da qui...!