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Un 25 aprile diverso: conoscere e ricordare alcuni retroscena della vicenda dei martiri di Camorena

mercoledì 23 aprile 2008
di Paolo Borrello
L’unico modo per festeggiare degnamente il 25 aprile è ricordare. Ricordare vicende ormai lontane nel tempo che non devono però essere mai dimenticate. Ricordare quindi la resistenza ed anche il fascismo perché ricordare il passato è sempre utile per comprendere il presente e per trarre indicazioni per il futuro. E il ricordo non può non riguardare la vicenda dei sette martiri di Camorena. Di questa vicenda alcuni aspetti non sono conosciuti o meglio sono noti a pochi. Diversi gli interrogativi che tale vicenda ha suscitato. Di questi interrogativi io ero a conoscenza, anche se in misura limitata, fin da ragazzo. Recentemente ho avuto modo di leggere un articolo di Alberto Stramaccioni, pubblicato dal settimanale “Settegiorni Umbria” l’8 luglio 2005 intitolato “Camorena un episodio di guerra civile”. Il titolo è emblematico e leggendo l’articolo ve ne renderete conto. Nell’articolo si citano nomi e cognomi di fascisti orvietani in qualche maniera implicati nella vicenda. Credo che dopo più di 60 anni, senza la volontà di istruire processi che non si tennero negli anni successivi agli episodi avvenuti nella nostra città e che non ha senso riproporre oggi, sia possibile citare nomi e cognomi, con l’avvertenza che certezze non ci sono relativamente a responsabilità personali dei fascisti orvietani. Comunque porsi interrogativi è ugualmente importante e in questo caso è necessario. Alberto Stramaccioni, già deputato e segretario regionale dei DS, è anche un ricercatore di storia contemporanea ed ha insegnato presso l’Università per stranieri di Perugia. Mi sembra opportuno riportare integralmente il suo articolo.
Camorena un episodio di guerra civile “Sette antifascisti fucilati dalla guardia nazionale repubblicana nel marzo 1944” Molto spesso quando ci si riferisce agli eventi accaduti tra il 1943 e il 1945, per ricordare la guerra di liberazione nazionale dall’occupante nazista, si parla anche di una “guerra civile” che ci sarebbe stata tra italiani fascisti e italiani antifascisti. Ma altrettanto spesso non si ha ben chiaro che cosa sia realmente accaduto in quei lunghi e tragici mesi. La vicenda di Camorena di Orvieto dove, il 29 marzo del 1944, vengono fucilati sette antifascisti da un gruppo di soldati della Repubblica Sociale italiana di Benito Mussolini, è un classico esempio della guerra civile tra italiani. Fino ad oggi questa vicenda non è stata sufficientemente approfondita nelle sue effettive dinamiche militari, politiche e sociali. Sette appartenenti alla cosiddetta “banda partigiana Stornelli” vennero arrestati e poi rapidamente processati e successivamente fucilati senza aver ucciso nessun soldato, né tedesco, né della Repubblica sociale italiana. E in più di fronte alla volontà tedesca di non procedere alla fucilazione, dopo il processo furono proprio i rappresentanti del fascio locale a volerne l’esecuzione capitale. Una vicenda che si può ben ricostruire solo nel clima di quei mesi e in una città in cui l’odio e il conflitto tra i tanti aderenti al fascio locale e i pochi antifascisti, o comunisti, o semplici renitenti alla leva raggiunse i livelli più esasperati. La “banda Stornelli” che prendeva il nome dal suo comandante Ulderico, di 39 anni, già soldato in Libia, ma renitente perché richiamato al servizio militare dalla Rsi e di orientamento politico comunista, fu costituita nel dicembre ’43 e aveva la sua base operativa in una caverna vicino a Sermugnano, mentre del gruppo facevano parte alcuni uomini che volevano in particolare evitare la leva nell’esercito fascista. In quei mesi anche quella zona era occupata dai soldati tedeschi in ritirata e tra Baschi e Castiglione in Teverina i cannoni antiaerei avevano abbattuto alcuni quadrimotori dell’esercito angloamericano, mentre la maggior parte dei membri dell’equipaggio si era lanciata col paracadute ed era stata accolta, curata e alimentata dal gruppo di Stornelli. Inoltre alcuni soldati alleati con i quali il gruppo Stornelli prendeva contatto, venivano affidati alle diverse famiglie dei contadini della zona che li nascondevano. L’attività di questo gruppo antifascista e antinazista era ben nota nella città di Orvieto dove in particolare viveva la famiglia Stornelli composta dalla moglie Arnalda Faustini e da tre figli, due femmine di 8 e 9 anni e un maschio di 14. Ulderico Stornelli era un falegname ebanista molto conosciuto nel paese e particolarmente osteggiato dai fascisti locali, che, pur di catturare lui e gli altri aderenti non mancarono di ricattare uno dei componenti del gruppo partigiano, Giovanni Nannarelli. Quest’ultimo prima venne costretto a tornare a casa attraverso le minacce alla madre di togliergli le tessere annonarie e poi lo costrinsero a rivelare la sede del nascondiglio della banda. Il gruppo Stornelli venne così arrestato e condotto a Palazzo Valentini, ad Orvieto, sede del Comando militare tedesco per il processo, nel corso del quale fu proprio il Nannarelli uno dei principali accusatori. Dopo la cattura del gruppo Stornelli venne arrestato anche Federico Cialfi un proprietario terriero non più giovanissimo, considerato il sovvenzionatore della banda partigiana. A questo punto della vicenda nel contesto di una città occupata dai tedeschi e con una forte presenza della Guardia nazionale repubblicana fascista si consumò la tragedia. Il Tribunale militare tedesco di Orvieto diretto dagli ufficiali Winchler e Petzold e in collegamento con il comandante nazista di Perugia, Gehener, erano intenzionati a non condannare a morte il gruppo di partigiani e tantomeno Federico Cialfi, ma la pressione dei fascisti locali e degli ufficiali membri della Gnr tra cui Plinio Leggerini, Carlo e Alfonso Taddei, Adelio Salotti, Luigi Ficarelli, G.Battista Culmone, Marcello Martello, Libaldo Nencini, Girolamo Misciattelli, Amedeo Rampini, Sveno Troscia, Donato Bergamaschi, Vittorio Castelli, fu tale che il Comando tedesco accettò le loro richieste per una “punizione esemplare”. I nazisti, alla fine del processo, pur condannando a morte i partigiani, non vollero comunque assumersi la responsabilità della fucilazione alla quale doveva provvedere la milizia fascista. E così avvenne che nel tardo pomeriggio del 29 marzo 1944 i sette antifascisti furono costretti a salire su un camion seguito dai soldati della Guardia nazionale repubblicana fascista e condotti in località Camorena e lì fucilati ad uno ad uno in una cava di ghiaia, mentre i familiari venivano trattenuti in carcere e malmenati. L’eccidio era dunque stato compiuto per la ferma volontà dei rappresentanti del fascio locale che, forse in modo del tutto anomalo per quei tempi, avevano condizionato e contrastato le decisioni del Comando tedesco. E per voler dare un esempio ancora più significativo non risparmiarono nemmeno l’anziano Federico Cialfi che tra l’altro al momento dell’esecuzione fu colpito da un malore, ma venne ugualmente giustiziato. La vicenda assunse un significato di così particolare conflitto interno alla città che, appena finita la guerra, si avviò l’istruzione del processo con 25 cittadini orvietani e non, imputati di diversi reati. Nel giugno del ’47 venne emessa la sentenza della Corte d’appello di Perugia e nel corso del processo emersero fatti e circostanze a testimonianza di una realtà sociale e politica in profondo conflitto al suo interno, con delazioni, ricatti e violenze, tipiche di una guerra civile e dove si evidenziarono le pesanti responsabilità dei dirigenti fascisti, presenti nella polizia e nell’esercito repubblichino. Ma la sentenza, emessa proprio in quei mesi della più intensa pacificazione nazionale, dichiarò di non doversi procedere nei confronti di nessuno degli imputati, per alcuni perché non poteva essere esercitata l’azione penale, per altri perché i reati erano estinti per amnistia e per altri ancora per non aver commesso il fatto. Emersero purtuttavia precise responsabilità penali, in particolare di Plinio Leggerini, Carlo e Alfonso Taddei, Marcello Martello, Girolamo Misciattelli, Adelio Salotti, Donato Bergamaschi, Vittorio Castelli. Ma non si ebbe nessun ulteriore processo, nel corso dei decenni successivi. L’eccidio venne nei fatti dimenticato sul piano giudiziario anche se l’Amministrazione Comunale di Orvieto e le organizzazioni partigiane ogni anno ne ricordano il tragico evento. Oggi, non certo per vendetta, ma per amore di giustizia, di verità e di memoria, sarebbe opportuno ricostruire dettagliatamente la vicenda, sia sul piano storico che su quello giudiziario. La Magistratura, se vuole, ha i suoi strumenti per perseguire ancora i responsabili della fucilazione. Il gruppo Stornelli non si era macchiato di nessun delitto e non aveva compiuto alcuna azione armata, né contro i tedeschi, né contro i fascisti. Ma la furia ideologica e la violenza fascista prevalsero e una vicenda della più generale guerra di liberazione nazionale assunse, anche ad Orvieto, il carattere di un episodio di una vera e propria guerra civile. Alberto Stramaccioni