opinioni

Quale futuro per le pensioni

martedì 19 giugno 2007
di Danilo Buconi – Primo promotore Associazione Italia Futura
Di nuovo in agenda, il tema delle pensioni. Ancora una volta allarmismi, proposte, giudizi e, più che mai, paure, per il futuro dei lavoratori di oggi e, soprattutto, di domani. Di quelli per i quali, cioè, grazie alla deregulation e alla precarizzazione introdotte con la legge Biagi, accostate alle sempre maggiori difficoltà ad accedere al posto di lavoro di tutta la vita e appaiate alle mancate promesse del governo in carica, la pensione non solo sarà sempre più lontana ma appare ogni giorno più incerta, più in dubbio, più vana che concreta. Che davanti al prolungamento della vita media degli italiani occorra aprire una riflessione seria sulla situazione dei conti previdenziali è fuori discussione. Ma il punto è proprio da dove partire nella discussione, quali finalità proporsi di raggiungere e con quale strada. Sarebbe più che lecito attendersi che le scelte di politica economica e sociale di un governo di centrosinistra avanzassero nella direzione di un aumento delle tutele e delle garanzie, in particolare a favore delle categorie sociali più deboli ma, se è vero – come purtroppo è vero – che il buongiorno si vede dal mattino, è molto facile prevedere che, per l’ennesima volta, le aspettative saranno ancora una volta tradite. Il tema ad oggi predominante è il famoso “scalone”, il salto a piedi pari da 57 a 60 anni, a partire dal prossimo gennaio 2008 come età minima per accedere alla pensione di anzianità. Chi lo ha programmato e chi oggi lo difende, assicurano che senza questa scelta il sistema pensionistico rischia di saltare nell’arco dei prossimi venti anni; chi lo osteggia, chiedendone una revisione, ritiene invece che il sistema previdenziale possa essere comunque salvaguardato anche sostituendo il cosiddetto “scalone” con alcuni “scalini”, dettagliatamente programmati e ammorbiditi. In verità, il tema pensioni, può e deve essere affrontato purché lo si faccia – però - non solo e non tanto nell’unica ottica del risparmio economico ma analizzando attentamente dati ed elementi reali ed oggettivi e ponendo, in parallelo a questi, soluzioni che siano in grado di garantire, prima di tutto, giornate dignitose ai pensionati di oggi e di domani. Non ricchezza, certo, ma nemmeno miseria e fame! I nodi principali da affrontare divengono allora tre: nell’immediato, occorre eliminare il cosiddetto “scalone” di anzianità, sostituendolo con un sistema di incentivi e disincentivi collegati a dei cosiddetti “scalini” in grado di rimettere alla libera scelta del lavoratore l’età in cui abbandonare il lavoro per anzianità di servizio (con particolare attenzione alle categorie che svolgono lavori usuranti); secondo, occorre stabilire quale sia l’effettiva soglia economica media, in Italia, al di sotto della quale è messa in discussione la vita dignitosa della persona (e questo, andrebbe chiarito non solo per i pensionati, ma anche tutte le famiglie in generale); terzo, occorre stabilire - una volta per tutte - con quali risorse pagare che cosa ossia, stabilire una volta per tutte a cosa destinare i contributi previdenziali versati dalla popolazione lavorativa. In merito alla prima questione appare sempre più evidente, senza ombra di dubbio, che occorre definire ben al di sopra dei tristemente famosi 516 euro la soglia minima di reddito necessaria ad una persona per potersi garantire una vita appena dignitosa: 700 euro rappresentano, a parere di chi scrive, il minimo vitale indispensabile per arrivare a fine mese, cifra che può ovviamente essere ridotta – in considerazione delle spese fisse comuni – per nuclei familiari composti di due o più persone, salvo tenere in considerazione la presenza di soggetti disabili, portatori di malattie croniche o comunque necessitanti di particolari forme di assistenza socio-sanitaria, caso molto frequente in nuclei familiari composti da persone anziane come, appunto, il caso dei pensionati. Sul secondo fronte, quello dell’utilizzo e della destinazione dei contributi, occorre innanzitutto chiarire una volta per tutte che se con i contributi previdenziali si pagassero solo le pensioni, il sistema si presenterebbe in perfetto equilibrio, sia per l’oggi che per gli anni a venire, almeno fino al “fatidico” 2030. Ecco dunque definiti i primi due pilastri essenziali di una possibile riforma del sistema previdenziale italiano: definizione della soglia minima vitale di reddito e separazione della spesa previdenziale da quella assistenziale (cassa integrazione, mobilità, maternità, congedi parentali, etc.) con quest’ultima posta a carico della fiscalità generale di sistema (bilancio generale dello Stato). Altro punto qualificante - e ormai irrinunciabile – per una riforma moderna e improntata a principi di solidarietà, efficacia ed efficienza, è rappresentato dalla unificazione degli istituti previdenziali nazionali arrivando alla creazione di un unico Istituto Nazionale di Previdenza, in grado di accorpare a sé un unico Conto Pensioni Nazionale sul quale sono versati tutti i contributi previdenziali dell’intero mondo del lavoro italiano, dal settore pubblico a quello privato, dal lavoratore dipendente a quello autonomo. Una sorta di “Super Inps” cui assegnare tre precise deleghe: gestione del Conto Pensioni Nazionale, definizione dei processi pensionistici e mandato ispettivo di verifica del rispetto delle normative in materia di regolarità delle posizioni previdenziali dell’intero mondo del lavoro nazionale (in poche parole, controllo e repressione dell’evasione contributiva, anche attraverso controlli incrociati con altri istituti fiscali). Un capitolo a parte della riforma deve poi essere scritto per gli amministratori locali di enti pubblici per i quali ad oggi non sia prevista copertura previdenziale: in sostanza, occorre assimilare consiglieri e assessori delle comunità locali (comuni, province, comunità montane) nonché di ogni altro ente di gestione del patrimonio pubblico (consorzi, unioni, etc.) ai lavoratori dipendenti con conseguente applicazione alle rispettive indennità lorde dell’aliquota contributiva prevista a carico degli stessi lavoratori dipendenti. Solo a questo punto, dopo aver dunque proceduto a concrete operazioni di tutela sociale, riordino e semplificazione del sistema previdenziale, si può accedere al passaggio successivo, quello inerente la definizione dell’età pensionabile, andando però ad intervenire – prima di tutto – sulle pensioni di vecchiaia e procedendo – nell’ottica di un necessario intervento di perequazione e di uguaglianza tra i cittadini - alla parificazione tra uomo e donna dell’età di accesso alla pensione di vecchiaia: attraverso passaggi graduali di anno in anno occorre prevedere che dal 2008 inizi a salire la soglia di età prevista per le donne al fine di avere diritto l’assegno di vecchiaia in maniera tale da raggiungere i 64 anni di età minima a valere dal gennaio 2011; contemporaneamente, con un passaggio inverso e sempre nello stesso spazio di tempo, si può prevedere l’abbassamento alla stessa età (dai 65 ai 64 anni) della soglia prevista per l’assegnazione della pensione di vecchiaia agli uomini. Per quanto invece concerne le pensioni di anzianità, punto fondamentale da inserire in una moderna riforma del sistema previdenziale è rappresentato dalla parificazione del monte ore contributive tra settore privato e settore pubblico: in sostanza, definita la soglia minima di ore contributive prevista per i contratti di lavoro del settore privato con 40 ore settimanali, occorre adeguare ad essa – per scaglioni - le altre soglie minime di accesso alla pensione in rapporto alle ore contrattuali settimanali di lavoro, intervenendo sull’innalzamento dell’età pensionabile, ferma restando la soglia massima dei 40 anni di contribuzione previdenziale massima. Ad esempio, dato che per un lavoratore dipendente privato il monte ore contributive dopo 35 anni di servizio con 52 settimane lavorative da 40 ore settimanali ammonta a 72800 ore complessive, si può prevedere un adeguato innalzamento degli anni di lavoro fino a rendere gradualmente uniforme tra tutti (pubblici e privati), salvo la definizione dei lavori considerati “usuranti” e dei lavori “a turnazione”, l’anzianità contributiva per l’accesso alla pensione di anzianità per coloro che fanno riferimento ad orari contrattuali minori delle 40 ore settimanali. In tal modo, suddividendo per scaglioni l’equiparazione del monte ore contributive, si potrebbe arrivare alle seguenti soglie di accesso alla pensione di anzianità: 57 anni di età anagrafica per i lavoratori con contratti da 37 a 40 ore settimanali; 58 anni e mezzo in caso di contratti a fino a 37 ore settimanali; 60 anni di età per contratti con orario inferiore a 34 ore settimanali. In ogni caso, vengono definite le opportune riduzioni dell’età anagrafica di accesso alla pensione di anzianità al fine di tenere concretamente in debita considerazione i lavori usuranti, i lavori svolti a turnazioni e i lavori con contratti settimanali superiori alle 40 ore stabilite come soglia di riferimento. Riduzioni che potrebbero essere attuate attraverso il riconoscimento di due settimane di contributi figurativi per ogni anno di contribuzione effettivamente versata. Ultimi due passaggi della riforma, ancora una volta impostati a criteri di uguaglianza e solidarietà, la revisione dei coefficienti di trasformazione dal reddito alla pensione e l’istituzione di un contributo solidale da applicare agli assegni di importo mensile superiore ai 3.000 euro. Concretamente, si tratterebbe di ritoccare i coefficienti di trasformazione riducendoli in forma inversamente proporzionale ai redditi da lavoro percepiti e di chiedere un “contributo di solidarietà” in favore degli assegni minori, ai titolari di assegni di pensione con importi mensili superiori ai tremila euro, applicandolo all’intero importo della pensione al fine di attuare una seppur minima perequazione degli assegni. Quanto ai tempi della riforma, la proposta – avendo come obiettivo quello di abrogare il famoso scalone che prevede l’innalzamento generalizzato dell’età da 57 a 60 anni, prevederebbe l’entrata in vigore al 1° gennaio 2008, la piena attuazione entro la fine del 2011 ed un primo passaggio di verifica - con il quale monitorare andamento e attuazione della riforma e quindi raccogliere gli elementi necessari per ragionare su possibili aggiustamenti - concordato con le parti sociali, antro la fine del 2012.