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Anno scolastico 2005-2006: si ricomincia! Insegnare ad apprendere... riflessioni di un docente

sabato 17 settembre 2005
di Franco Picchialepri
Il nuovo anno scolastico è appena cominciato e con questa riflessione personale vorrei descrivere ciò che la mia esperienza di insegnante mi ha suggerito riguardo al “fare didattica”.
Lasciando da parte tutte le nozioni pedagogiche riguardanti questo argomento, ho cercato di dare voce ad una meditazione interiore riguardo all’insegnamento. La mia intenzione è stata soprattutto quella di scavare nel mio “vissuto” per avere spunti di confronto e di stimolo operativo.

Nell’affrontare il tema del “metodo”, ho ritenuto opportuno riferirmi all’etimologia di questo termine, intendendolo come un insieme organico di regole e di principi in base al quale si svolge un’attività teorica o pratica.
La mia ricerca si è così trasformata nella seguente domanda: cosa posso proporre agli alunni e quale strada io docente devo percorrere per effettuare un tipo di insegnamento non solo nozionistico, ma di educazione ai valori?.

Mi soffermo sulla parola “valori” – intesa soprattutto come “ricerca di valori” – perché mi sembra che in questi anni di insicurezze, questo termine abbia assunto un’importanza secondaria. La scuola quindi deve e dovrà giocare un ruolo importante perché ci si riappropri di un’etica, anche se non è la scuola, come tanti molto semplicisticamente affermano, l’unico luogo deputato alla crescita morale e culturale dei ragazzi.
Più che di “metodo”, quindi, preferisco far riferimento a procedure e atteggiamenti che possono articolarsi in tre fasi: le tecniche di programmazione, gli stili di presenza e le tecniche didattiche.

Le tecniche di programmazione. La legislazione scolastica, entrata in vigore in questi ultimi anni, ha indotto – quasi costretto – a ripensare l’insegnamento come un percorso dinamico e flessibile, secondo un modello di gestione che somiglia a quello di un’azienda (valutare le risorse a disposizione, porsi obiettivi, predisporre strumenti di intervento, valutare e verificare la qualità del processo). A conferma di questo, molti Istituti si sono adoperati nel raggiungimento della certificazione di “qualità”, che fino a poco tempo fa era una prerogativa delle aziende. Ne consegue che se io docente non ho un ideale educativo, ma mi limito solo a portare a termine programmi o ad imitare programmazioni preconfezionate, il mio insegnamento sarà sicuramente corretto da un punto di vista tecnico, ma la mia opera pedagogica rischia di rimanere incompiuta.
Il mio personale parere è dunque quello di ricordarsi che esistono anche altri modi di operare, quali un sano realismo d’intenti, la corretta personalizzazione del rapporto docente-discente, un pizzico d’inventiva. Pertanto, non bisognerebbe affermare una linea aprioristica di traguardi da raggiungere, ma si dovrebbero individuare bene le situazioni di partenza, i condizionamenti, le potenzialità. Il processo didattico deve essere FATTIBILE.
Un giusto rapporto insegnante-alunno non servirebbe tanto a stimolare una reciproca empatia (pur tuttavia utile per accelerare il cammino educativo), quanto piuttosto a non perdere mai di vista le esigenze e le capacità di ogni singolo.
Infine, ciò che è scritto nei manuali e il confronto con i colleghi possono essere di stimolo, ma guai se diventassero momenti di pedissequa imitazione.

Gli stili di presenza. In genere, ma soprattutto per noi docenti, aver appreso le tecniche di insegnamento non basta. Il primo passo è quello di saper essere insegnante. Le nozioni apprese non sono sufficienti a comunicare concetti, ma credo si debba trasmettere un modo di essere. Perché ciò accada, bisogna, in primo luogo, “amare” il proprio lavoro, altrimenti chi lo ha scelto solo come un ripiego, sarà sicuramente incapace di motivare allo studio i propri allievi.
E’ poi importante avere un atteggiamento di “accoglienza” verso gli alunni, che non significa affatto mancanza di regole, al fine di instaurare tra docente e discente un rapporto positivo per procedere nel cammino degli apprendimenti in piena libertà. Per un insegnante accogliere dovrebbe significare offrire, sostenere, incoraggiare, insegnare e persino imparare. E’ anche importante pensare positivo, credere cioè nell’allievo anche meno promettente; non scoraggiarsi ma, anzi, avere fiducia in lui, nei punti positivi che ogni personalità possiede, almeno in parte. Specie nel rapporto con gli emarginati, gli svantaggiati, i diversamente abili è questo uno stile vincente, che può far affiorare risorse nascoste o misconosciute.
Inoltre bisognerebbe avere un atteggiamento equo nel gestire i microconflitti (“E’ sparita la merenda…”, “Mi ha preso la penna…”) per avviare gli alunni ad una coscienza civica, al rispetto delle regole di convivenza, all’equilibrio nel giudizio, per instaurare un clima di fiducia e non di “spionaggio”.
E’ quindi opportuno saper delegare, affidando compiti di responsabilità a ragazzi anche meno abili al fine di generare in loro quella fiducia necessaria per imparare.
Infine si dovrebbe lasciare spazio a idee diverse tra loro, rispettando le opinioni altrui, poiché questo sarebbe un modello di libertà educativa che educa alla tolleranza e al rispetto degli altri.
Certamente esistono molte altre angolature che tratteggiano meglio l’identikit di un docente, ma ognuno trarrà poi sicuramente spunto dalla propria esperienza.

Le tecniche didattiche. E’ certamente indispensabile studiare tecniche e metodiche d’insegnamento, in quanto il lavoro dei docenti ha comunque una dimensione scientifica alla quale non ci si può sottrarre, ma nel contempo gli insegnanti non dovrebbero mai dimenticare alcuni stili d’insieme, quali quello partecipativo e quello deontologico. Infatti, qualunque sia l’argomento di una determinata lezione, è importante interessare e coinvolgere l’alunno in modo tale che, partecipandovi attivamente, riesca a fissarne i contenuti, oltre ad avere una crescita personale. Stile partecipativo, dunque, non significa solo far partecipare l’alunno,ma soprattutto farlo diventare protagonista dei suoi apprendimenti.
E’ poi auspicabile usare tecniche che aiutino l’alunno a saper gestire la propria crescita culturale, abituandolo ad un modo di lavorare più autonomo.
Certamente sono cosciente che talvolta parlare di personalizzazione dei percorsi nell’accezione sopra indicata, è un’utopia poiché in classi superiori ai 25 alunni tutto diventa terribilmente complicato. Ma se solamente si riuscisse a portare tutti ad un livello superiore rispetto a quello di partenza, la nostra opera sarebbe comunque compiuta.

A conclusione di questo mio contributo, mi piace ricordare quel che già Aristotele affermava: “Ciò che dobbiamo imparare a fare, lo impariamo facendo”; a questo pensiero ritengo che si possa affiancare anche ciò che molti secoli più tardi Albert Einstein sosteneva: “Talvolta la fantasia è più importante della conoscenza”.