opinioni

Dove andiamo compagni?

sabato 16 luglio 2005
di Giuseppe Ricci
Recentemente il Presidente della Direzione Regionale dei DS, Claudio Carnieri, ha definito un quadro del partito umbro che, dopo la istituzione delle federazioni, è paragonabile ad una holding con una rete di direttori nel territorio (modello ASL) piuttosto che ad una comunità di intenti e di ideali.
L’immagine denuncia lo svuotamento degli organismi dirigenti nella loro funzione di direzione politica e la loro sostituzione nel ruolo, quando va già bene e quindi non sempre, con gli esecutivi.
Scendendo di scala la situazione non migliora, anzi direi che la minor massa critica causa una situazione persino peggiore.
La situazione politica ed istituzionale orvietana presenta oggi seri elementi di instabilità che rendono più incerte le prospettive e più difficile la soluzione dei già preoccupanti problemi economici degli enti, delle imprese e delle famiglie.
Era facilmente prevedibile una fase di questo tipo dopo lo strappo rappresentato dall’elezione di un sindaco non espressione del PCI/PDS/DS dopo quasi 60 anni.
Sarebbe però un errore ricondurre a questo solo elemento la precarietà e le fragilità del momento.
Sono portato a ritenere che molte delle motivazioni alberghino invece nelle difficoltà e nella non elevata qualità del dibattito in casa DS.
E anche qui sarebbe sbagliato ricondurre queste difficoltà esclusivamente alle vicende post-congressuali ed agli scossoni conseguenti il cambio di maggioranza.
Credo invece più appropriato richiamare i problemi sollevati da Carnieri circa le sempre più frequenti distorsioni legate a conflitti d’interesse e ai doppi se non tripli incarichi che allontanano quella che dovrebbe essere la reale identità dei DS.
Lasciatelo dire ad uno che di conflitti d’interesse se ne intende: tre anni fa ho cessato (giustamente) la mia attività di imprenditore privato perché in contrasto con il mio ruolo politico pur non ricoprendo alcuna carica istituzionale confliggente e subendo un lungo ed estenuante linciaggio politico (non sempre proveniente esclusivamente dalle fila dell’opposizione) estremamente pesante anche dal punto di vista personale e familiare.
Un lavoro paziente che taluni (che evidentemente così intendono il confronto democratico) periodicamente tentano di rimestare utilizzando le stesse ormai stantie e scadute argomentazioni.
Mi chiedo come mai gli stessi non si avvedano di altri macro conflitti esistenti per chi occupa contemporaneamente posizioni di prima responsabilità sia dal punto di vista politico che istituzionale. Evidentemente il conflitto non è elemento valutabile, per costoro, dal punto di vista oggettivo!
E come non rimandare alla qualità della discussione e della direzione politica che riusciamo a produrre.
Non voglio certo fare l’anima bella dopo aver svolto il ruolo di segretario del nostro partito ed essermi occupato del potere e della sua gestione; chi svolge ruoli di questa natura è naturalmente deputato ad occuparsene.
Nulla quaestio: il problema è quando ci si occupa SOLO di questo.
Voglio dire che dalle elezioni del 2004 in avanti abbiamo perso la nostra vocazione principale, quella che ci ha dato autorevolezza e ci ha consegnato un ruolo di governo ininterrotto dal dopoguerra ad oggi: la capacità di pensare, discutere (coinvolgendo e facendoci coinvolgere) ed elaborare IL PROGETTO.
Siamo fermi a quanto abbiamo fatto nella precedente legislatura.
Non solo: fatichiamo nella concretizzazione di quanto abbiamo ideato e progettato in passato.
Perché? Credo oggi si pensi più ad occupare spazi (dai vari organigrammi nella sanità sino alle sezioni soci delle coop) per il consenso NEL partito piuttosto che a svolgere un lavoro di progetto. Non solo! Mi sembra ci sia in atto un lavoro volto più a destrutturare che a costruire ed elaborare.
Basti pensare alle affermazioni su RPO contenute in una recente intervista del segretario dell’unione comunale di Orvieto o al fatto che ci sono voluti 8 mesi per dare una guida all’organismo che avrebbe dovuto rappresentare il luogo di elaborazione e direzione politica territoriale (con un coordinatore eletto, fra l’altro, con 40 voti contro 35).
Concludendo. La mia domanda, in sintesi, è volta a comprendere se si vuole continuare ad interpretare la direzione del partito come fosse una Spa in cui chi ha il pacchetto di maggioranza da le carte e gli altri stanno a guardare oppure sussistano le condizioni per un confronto fecondo fra opinioni diverse tanto più necessario nel momento in cui siamo chiamati a ridefinire una linea nazionale, dopo il tramonto di quella uscita dal congresso, per i noti motivi.
Ma davvero le alternative sono l’acquisizione di chi dissente o la sua espulsione politica se non l’annientamento magari con pratiche poco eleganti?
Guardate che continuare su questa strada può essere pericoloso: per i cittadini, gli imprenditori, le categorie sociali e gli alleati di coalizione che sempre meno comprendono la strada che stiamo percorrendo (occorre forse ricordare lo sconcerto e l’incredulità per la mancata elezione del consigliere regionale e, soprattutto per il modo in cui questa è maturata?); per noi, i nostri iscritti e i nostri elettori perché altri possono diventare i luoghi e le forme della discussione ed altre possono diventare, in futuro, le vie del consenso politico.
Ed allora, se non invertiamo la rotta, il risveglio potrebbe essere amaro.