cultura

Il respiro di Dio

sabato 28 ottobre 2017
di Mirabilia-Orvieto
Il respiro di Dio

Battistero di Padova, Giusto de Menabuoi: Paradiso

In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo:

"Beati i poveri in spirito, 
perché di essi è il regno dei cieli..." (Matteo 5, 1-12)


Così inizia la predicazione di Gesù, il progetto di una “umanità” completamente nuova!
Un discorso, quello delle Beatitudini, che Cristo pronuncia sulla montagna, un po’ come Mosè aveva fatto con il suo popolo nel deserto, là sul Sinai, di fronte alle tavole della Legge.
Anche se, con queste parole, egli ha voluto inaugurare la sua missione, esse in realtà contengono già un programma finale, un orizzonte da raggiungere.
Ma per arrivare al traguardo bisogna fare dei passi, dei percorsi, bisogna cambiare nel cuore, nei pensieri, negli atteggiamenti, negli sguardi.
Nell’Apocalisse è proprio lo sguardo profetico di Giovanni a vedere una moltitudine senza numero, proveniente anche da altre fedi, da altre religioni, o semplicemente fatta da uomini e donne di buona volontà; essi indossano una “veste bianca” (Apocalisse 7,2 ss) che indica il prezzo del loro amore per gli altri, una vita orientata e vissuta nel segreto della ordinarietà del quotidiano che è la cosa più difficile, perché lontano dagli occhi del mondo e, persino, a volte, di chi sta vicino.
E lì, nel segreto, dove il respiro dell’uomo respira con il respiro del Vangelo, con il respiro di Dio, questi uomini e queste donne stanno facendo ancora oggi della loro vita un Vangelo vivente, delle loro parole delle parole evangeliche, dei loro gesti dei gesti evangelici, dei loro sguardi dei sguardi evangelici...ogni giorno, nel segreto della loro vita (di loro “è”, dice il Vangelo, e non “sarà” il Regno dei cieli).

Basilica di Sant'Apollinare: La processione dei Santi, Ravenna

Gesù è stato grande non perché ha fatto i miracoli (si è infatti sempre distaccato da essi); Gesù è grande perché ha vissuto la realtà Dio-uomo nella sua quotidianità e ha respinto tutto ciò che lo poteva far emergere come il “grande”, anzi si è presentato come il “piccolo”. La santità non è la perfezione di coloro che hanno sempre ragione, che non sbagliano mai, che sono i primi: la santità è la familiarità con Dio e con gli uomini, vissuta anche in mezzo a conflitti e incomprensioni.
Sta qui tutta la “rivoluzione” umana, spirituale, culturale proposta da Cristo nel discorso della montagna che, nella tradizione biblica, è il luogo-simbolo di grandi rivelazioni, il punto di partenza di grandi rivoluzioni. La beatitudine si costruisce fuori di ogni compito e ruolo, attraverso piccoli atti, pensieri e sentimenti che a poco a poco rendono chi li vive una persona libera, perché è degli uomini veramente liberi il Regno dei cieli, e solo essi - dice san Paolo - sono chiamati figli di Dio (1 Gv 3, 1-3).
Ma la Libertà, ha fatto sempre paura alle istituzioni, allo Stato come alla Chiesa!
Non a caso, scrive Mimma de Maio, il primo Concilio Ecumenico, celebrato nel 325 a Nicea, fu voluto per motivi politici dall’imperatore Costantino (basti pensare che per tutta la vita rimase un ambizioso uomo di potere e si convertì, ricevendo il battesimo, solo poco prima di morire!), il quale, qualche anno prima, aveva concesso le sue simpatie al cristianesimo, religione vincente e quindi più adatta a governare le masse.

Il Concilio di Nicea

A partire da allora fu immessa nella Chiesa la logica del potere imperiale, una logica repressiva, totalitaria, scolpita nella ragion di Stato che richiama alla memoria le celebri parole di Caifa riguardo a Gesù: «Conviene che un solo uomo muoia per il popolo» (Gv. 11,50).
Quante volte sono state emarginate o eliminate persone scomode, magari anche dei santi, pensando di fare il bene del popolo?
La libertà dei figli di Dio, dell’uomo delle beatitudini, ha dato e darà sempre fastidio al potere che, nello stabilire le regole in modo lineare e preciso, vorrebbe tutti come dei “subalterni” a cui ci si rivolge dicendo o obbedisci e “ti sottometti a me” o “sei fuori”, fuori della società, fuori della comunità, cioè scomunicato (anathema sit). La meta a cui mira il potere non è la luce della verità, da cui nasce la libertà (“La verità vi farà liberi” - Gv. 8,32), ma la sua stessa stabilità, per cui si perseguita e si soffoca tutto ciò che è libero.
E proprio perché ogni vocabolo rischia di scivolare via dalle radici e fuggire, è bene dire che questo messaggio porta con sé qualcosa di dirompente.
Il vocabolo “beato”, infatti, non vuole assolutamente esprimere l’idea di contentezza o di soddisfazione (è aggettivo applicato anche all’invidioso), ma significa un andare verso l’altro per renderlo realizzato: “beare” è quindi “fare felice qualcuno”, non essere felici e basta.

Il discorso della Montagna

Cristo non si ferma qui. Quando annuncia poi: "Beati i miti perché erediteranno la terra" (Mt 5,5) non significa impossessarsi di qualcosa che ancora non si ha, ma al contrario vuol dire accorgersi o vedere un vuoto, un deserto. Perché io possa “ereditare” ed essere beato, occorre che abbia guardato l’orfana cavità che è in me, che l’abbia sentita come terribile senso di privazione e di irrealizzazione: nulla perciò si eredita se non si ha ben chiara davanti a sé l’immagine del vuoto che abita la nostra umanità, insieme però alla fede di vederlo un giorno colmato.
Non è un caso allora che il discorso delle beatitudini termina dicendo: "Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno...Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli" (Mt 5, 11-12).
Infatti, neppure le opposizioni più dure potranno impedire ai discepoli di continuare a respirare Iddio.