cultura

Il punto di Guido Barlozzetti: "Una brutta notizia"

giovedì 19 ottobre 2017
di Guido Barlozzetti
Il punto di Guido Barlozzetti: "Una brutta notizia"

Non è un tempo felice per le librerie. Chiudono. Chiudono perché i bilanci sono in rosso e i consuntivi scendono più di quanto non salga il numero dei lettori. Accade un poco dappertutto e salgono impotenti i lamenti per la scomparsa che sembra irreversibile di un luogo di contatto unico tra chi legge e i libri, spazio di ricerca, di dialogo con se stessi attraverso la mediazione di questo oggetto fatto di carte che diventano pagine che diventano storie, riflessioni, sogni, immaginazioni...

Adesso, questo è stato annunciato, tocca alla Libreria situata nel Palazzo dei Sette di Orvieto. Una sede storica perché prima dell'attuale c'era la libreria di Enzo Fusari che per decenni accolse giovani e anziani lettori che lì trovavano l'occasione per conversare, conoscersi, confrontarsi, per fare quello che si fa in una democrazia o si faceva in un libero comune - guarda caso, proprio nel palazzo dei Signori Sette... - parlare, esprimere opinioni, condividerle e esporle al giudizio degli altri.

Non entro nei motivi, posso almeno in parte immaginarli, ma non è questo il punto. Il punto, purtroppo, è un altro. Nella nostra Città constato che da anni i luoghi e le sedi per un confronto, una riflessione che non sia rattrappita sulla lamentazione onanistica, vanno diminuendo e si avvicinano alla scomparsa. Mentre pilastri del tessuto che rende tale una Comunità si sono dissolti, dalle scuole al tribunale.

Una volta - e non lo dico come se fosse l'inizio di una favola - c'erano le associazioni, ultima residuale, eroica sopravvivenza quella dell'ISAO, a cui semmai aggiungere ApertaMente e l'Università della Tre Età, dove si poteva entrare in un circuito di saperi e conoscenze, dove chi era giovane ascoltava la profondità di idee e storie, e magari ne poteva ricevere uno stimolo, l'alimento per una passione ancora alla ricerca di sé. C'erano i bar e i caffè dove si poteva prendere un aperitivo, sedersi con gli amici e divagare sui massimi sistemi del mondo come su niente, giocare a carte, raccontare i fatti propri e soprattutto quelli degli altri...

Vogliamo dire che se chiudesse il Caffè Montanucci, anche su questo fronte saremmo alla canna del gas. Sì, asfissia, mancanza d'aria, aria fresca, fatta di molecole che propiziano l'incontro, lo stare insieme, il bisogno di uscire da sé e di aprirsi agli altri. E' paradossale che questo progrediente soffocamento si accompagni a un periodo della Città che forse come nessun altro avrebbe bisogno di apertura, disponibilità a mettersi in gioco, a ragionare sul futuro, sulle possibilità che si possono ancora offrire a un centro storico glorioso, ma purtroppo incagliato in se stesso, in via di disertificazione, separato brutalmente dal suburbio-dormitorio come nelle immense periferie metropolitane, che lo vede sempre più come una rocca blindata su se stessa.

Città schizoide, in caduta libera demografica e affollata da torme turistiche che nessuno ha disciplinato e che hanno per automatica e non gestita ricaduta comportato un degrado profondo delle vie, dell'ambiente e del modo in cui una Città dovrebbe offrire e raccontare se stessa, le sue ricchezze visibili e nascoste. Soprattutto, Orvieto dovrebbe proteggere una qualità inestimabile, che le appartiene proprio per una dimensione storica e urbana che significa un certo rapporto con lo spazio e il tempo. Vogliamo dire che una realtà come la nostra ha in sé un tesoro irripetibile che la mette - la metterebbe, verrebbe voglia di scrivere, la metteva... - in controtendenza rispetto a tutto quello che questo tratto della modernità sta tumultuosamente enfatizzando: il rumore, la fretta, il mordi e fuggi, il non-consistere, la liquidità che fa scivolare addosso tutto e non si ferma su nulla, fast e ancora fast, bulimia di niente...

Avremmo dovuto proteggere questo caposaldo antropologico, avremmo dovuto non abbandonarlo a se stesso, è mancata la solerzia e la sollecitudine del giorno dopo giorno e adesso rischiamo che il processo si acceleri, saltato - come non voglio credere che sia - oltre il punto di non ritorno. Sarebbe necessario tornare a parlarsi, senza diktat calati dall'alto e, di contro, senza il malmostoso piagnisteo di tanti che risulta ormai insopportabile oltre che immorale, perché siamo tutti nella stessa barca.

Il Centro Storico è una creatura delicata, fatta di pietre e di persone, quelle che ci vivono, quelle che ci vengono perché dovrebbero trovarvi qualcosa che altrove non trovano, che vengano da Sferracavallo, da Ciconia o da Parigi e Stoccarda. Esigerebbe rispetto, cautela, solidarietà e cura. Già, cura, il gesto che dovrebbe essere amorevole di chiunque ha un potere, verso se stessi e gli altri, anche quando si mette un divieto d'accesso e si ripulisce una piazza dalle auto. Per questo, la possibile chiusura della Libreria dei Sette mi pare un brutta notizia, che speriamo possa essere scongiurata. Ci riguarda tutti. Noi cittadini, fin troppo divisi e rassegnati, e chi ci rappresenta.