"Come uccidere le aragoste". Roma matrigna nel romanzo d'esordio di Piero Balzoni

Una storia vera, o forse no. Vere, però, sono le immagini prese in prestito dalla vita per parlare della morte, che arriva a pagina 1. Ma anche di riscatto, d'amore, di famiglia. Della "bizzarra e spietata caccia metropolitana agli assassini" del fratello, travolto da un'auto pirata sulla tangenziale di una Roma matrigna, distante anni luce da quella de "La Grande Bellezza" di Paolo Sorrentino. Una Capitale metropolitana, arrogante e violenta, vista con gli occhi di sceneggiatore romano e script editor per la tv.
"Ho cominciato a odiarla – confida Piero Balzoni – quando sul pullman delle gite scolastiche si iniziava a cantare 'La Società dei Magnaccioni' che non è Roma e ti fa odiare Roma. Sono un suo prodotto. Quella antagonista che ho presentato era funzionale al mio personaggio". Con le analogie del mondo animale, dove le dinamiche sono più chiare e intrise dello stesso degrado, della medesima rabbia verso quella miseria morale che abbraccia l'esistente.
"Come uccidere le aragoste" è il suo romanzo d'esordio – vincitore del Premio Orlando Esplorazioni – scritto non da esordiente, pubblicato un anno fa da Giulio Perrone Editore e presentato sabato 1 ottobre alla Trattoria San Severo, al civico 8 di Via del Corniolo, in località Torre San Severo, a colloquio con Maria Luisa Salvadori.
"Non siamo in un thriller – mette subito in chiaro – semmai in un anti-thriller. Non è un fantasy ma la dimensione mentale di un uomo e della sua ironica e disperata elaborazione del lutto narrata attraverso una voce intima e irriverente, capace di suscitare quel profondo senso di indignazione che soltanto l’odio, quando è puro, fa provare. La perizia di una persona esperta dell'immagine, costruisce un impianto narrativo dove la scrittura diventa codice di linguaggio".
"L'elemento di partenza – conviene l'autore – è la scrittura. Fin da quando non sapevo scrivere, ma riempivo di segni velocissimi i blocchetti che trovavo in casa. Dal liceo alla pubblicazione di alcuni racconti, prima di arrivare a questo romanzo ho aspettato il momento giusto. E di avere qualcosa di forte da dire. Ho sottoscritto una sorta di patto con chi legge. Mi sono detto: 'Quanto materiale di lettura, c'è già sul mercato!'.
Un po' per carattere, un po' per il mio percorso di lettore ho cercato di tenermi a margine dei grandi flussi. Di quello, il mercato è pieno. Mi sono detto: 'Deve essere qualcosa che non posso fare a meno di dire. Non potevo non scriverlo. Ho scelto di non iscrivermi alla Facoltà di Medicina per scrivere, dovevo presentare allora qualcosa che fosse all'altezza di questa decisione. Non credo nella storia in sé, ma nel modo in cui raccontiamo il mondo.
Avevo una cultura cinematografica e televisiva nutrita e mi interessava raccontare attraverso le immagini. Paolo Di Paolo insegna che la sfida tra un film e un libro, per quest'ultimo è persa in partenza. Sono due piattaforme di fruizione diverse, ma a chi pensa ad eventuali trasposizioni del libro dico subito che è complicato rendere sullo schermo ciò che nasce sulla carta. Sono sempre stato incuriosito da come le persone si presentano. Non tanto da quello che pensano di me. Mi chiedo spesso: 'In questo momento, cosa pensa la gente del mondo?'.
Costruendolo, Luca Amodio mi è cresciuto dentro con grande forza, mi si è imposto con la sua dimensione personale dell'esistenza, a cui strappano con la forza una figura di riferimento come il fratello. Mi piacciono i personaggi misteriosi a loro stessi, dove il sé rimane non indagato. Non perseguiamo quello di cui abbiamo bisogno. Il piano di vendetta che il protagonista insegue fa stare 'bene', solo nel percorso nel momento in cui lo compie. A dispetto del cognome, si dimentica anche della religione cattolica. Che, a Roma, piena com'è di chiese è praticamente impossibile".

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