L'inno alla vita di Niccolò Ammaniti risponde al nome di "Anna"
"Ci sono scrittori che hanno un dono. Il piffero giusto che li fa seguire, anche nei posti dove non interessa entrare. Niccolò è uno di loro. In lui, convivono apollineo e dionisiaco. L'amore per l'ordine, la classicità, il rigore. E la libertà creativa e sfrenata della fantasia. C'è assurdità sul piano della logica, forza nel complesso. È nel mezzo, seguendo la linea continua della sua scrittura, che come voce riesce a trovare la sua originalità".
Coglie nel segno Paolo Repetti, fondatore e direttore della collana "Stile Libero" di Einaudi, in prima fila venerdì 18 dicembre nella Sala Expo del Palazzo del Capitano del Popolo di Orvieto per assistere all'annunciata presentazione, con lettura, di "Anna" che tira il sipario sulla ventesima edizione della rassegna "Il Libro Parlante" promossa dalla Libreria dei Sette – Mondadori in collaborazione con il Comune. Stessa data, stesso orario, stesso luogo di sei anni fa. Stesso protagonista indiscusso, Niccolò Ammaniti, tornato sugli scaffali dopo quattro anni di duro lavoro.
Una discesa nell'abisso, la sua, per chi non ha paura e branchie impermeabili al fango delle critiche. Lui ce l'ha e quando scrive come Dio comanda, ti prende e ti porta via. Nell'attesa che la festa cominci, il momento è delicato. Poi, arginato il traffico della Capitale arriva e recupera il ritardo facendo sentire tutti "Io e te". Nasce così anche la storia di Anna, che gli ronzava in testa da almeno dieci anni. "Scrivo quelle che sopravvivono agli anni, quelle che resistono". A scaturirla, l'osservazione del comportamento di alcuni ragazzini sulla spiaggia, deserta e caldissima, di Creta.
"Per sperare - dice - bisogna partire dalla necessità. C'è voglia di resistere e sperare in qualcosa in questo inno alla vita e alla libertà. Anche se ha pochi passaggi comici, paradossalmente, potrebbe essere il mio romanzo più positivo. La sua gestazione è stata lunga, ma scrivo le storie che resistono. Questa attendeva l'arrivo della protagonista. In un mondo apocalittico dominato da bande di ragazzini, era come un acquario senza il pesce. Ho passato un momento molto delicato, divorato dal terrore che la scintilla si spegnesse e che avessi esaurito le mie storie. Non volevo correre il rischio di ripetermi.
È attraversando la Sicilia, la sua natura fortissima nascosta tra le pietre, che è riemerso il senso delle cose. Ho iniziato così a raccontare di una ragazzina di cui a 13 anni mi sarei innamorato, standole accanto come una camera che riprende e la descrive. A un certo punto, ho sentito che il personaggio aveva bisogno di trovare una propria strada, forse diversa da quella che io stavo scegliendo per lei. Era come se protestasse. La sua tenacia è una speranza per l'umanità.
Alla base di tutto, l'idea che la vita conta per come la vivi, non per quanto è lunga. Una sorta di parabola, insomma, nata anche dalla necessità di non raccontare più la tecnologia. Quanto è faticosa per uno scrittore! Mi piaceva l'idea di sbarazzarmi della digitalizzazione in cui siamo immersi per raccontare di paesaggi naturali e capire quanto ci mette l'edera a nascondere i resti della civiltà. È nella memoria che uno cresce, trova e sopravvive".
Il resto lo fa la fantasia. Quella debordante, di un ex bambino con una certa tendenza al macabro che all'asilo disegnava lapidi e crocifissi e a Carnevale, in mezzo a principi e cowboy, vestito da morto andava alle feste e rimaneva sdraiato con gli occhi chiusi e le mani giunte. "Leggevo Calvino – spiega, ora che è adulto – ossessivamente. A scrivere, ho iniziato per la voglia di raccontarmi storie, tentare di reinventare l'esistente per sorprendermi e divertirmi.
A scuola, sono stato rimandato tre volte in Italiano e bocciato in quarta ginnasio. Con 'Anna', sento di aver alzato un'asticella che con fatica in futuro potrò superare. Dopo le esperienze cinematografiche con Salvatores e Bertolucci, mi piacerebbe anche fare un altro documentario come 'The Good Life'. La passione per l'India è nata grazie agli Lp dei trascorsi hippy di mia madre.
Lo scrittore, in fondo, sente e vive una dimensione solipsistica. La lingua è un modo per mostrare lo sguardo della persona, il documentario costringe ad una certa attenzione verso il mondo. Per chi scrive, il vero rischio non è l'assenza di una trama, ma la perdita della propria lingua. Nei miei libri, c'è una sorta di tradimento. La sensazione più destabilizzante, legata all'adolescenza, quando ci si sente traditi dai genitori, si rompe un codice precostituito ed emergono nuove personalità.
La maturità, allora, è quella di accettare la diversità reciproca. In 'Io non ho paura', il male è molto più vicino di quanto ti aspetti. In tutti i libri che hanno a che fare con gli adolescenti, c'è il sospetto da parte del figlio, in 'Anna' innesca la miccia che produrrà il cambiamento. Ha un nome semplice, palindromo, che suona giusto. È verosimile, vero. Senza troppo, né troppo poco. Avessi una figlia, la chiamerei così".