cultura

Orvieto. Incanta chi arriva, scontenta chi resta

mercoledì 29 maggio 2013
di Davide Pompei
Orvieto. Incanta chi arriva, scontenta chi resta

Articolo tratto da L'Antropometro, periodico a cura di Guido Barlozzetti

Incanta chi arriva, scontenta chi resta. Affascina chi non la conosce, per quella sua aria da cittadina per bene e un po' austera che all'occorrenza sa tradire lo spirito paesano in certi vicoletti da cartolina, tutti panni stesi e sughi freschi. Ma finisce per affamare chi si trattiene e in quella stessa aria casa-chiacchiere-e-chiesa respira ancora troppo il retrogusto irrisolto di stanca provincia non bagnata dal mare. Orvieto è un'anziana in vestaglia e pantofole, ma con il filo di perle. Un cane malconcio che bastona se stesso e si morde la coda. Ha la stessa identica impunita indolenza di una pigra farfalla - eternamente indecisa se spiegare, vanesia, le ali - che nell'attesa di un simile eroico (necessario?) gesto continua inquieta a rivoltarsi nella sua crisalide, imprecando contro la mediocrità di un'esistenza da bruco.

Raccontarne ogni giorno spasmi, sospiri ed affanni si rivela così compito arduo e a tratti ingrato. Specie a chi si prefigge di farlo a cuore aperto, lavorando di pancia e di testa, in cerca di mani tese che restano chiuse e di fronte a bocche a cui per quieto vivere, che così quieto non è, fa comodo rimanere cucite. Crolla miseramente, dinanzi alla miseria umana, l'umano tentativo di nutrire un rispettoso partecipato distacco, mantenendosi onesti, allo stesso tempo lontani e terreni finendo per sporcarsi, volenti o nolenti con le storie, storielle e storiacce della sua gente, alla continua ricerca della giusta misura. Sotto sotto, Orvieto è un coro stonato di voci asimmetriche. Un coacervo confuso e indistinto, una piazza distorta popolata da chi strilla più forte e da chi con cadenza bimestrale annuncia svolte e rivoluzioni epocali che, in fondo e in fin dei conti per fortuna, tanto epocali non sono mai davvero. Le apocalissi irreversibili qui durano poco più di un mese. E nell'attesa che arrivino tendenze già vecchie, si invocano punti di non ritorno e si pratica un'attitudine sempre più in voga. Quella del tutti contro tutti o del tutto e il contrario di tutto. In un mors tua, vita mea in salsa locale che a volte diverte ma più spesso disorienta chi ha un eccesso di antenne.

Orvieto è bellissima, purché presa a piccole dosi. Orvieto è cattiva, ma non più di altri luoghi. Orvieto è maligna e pettegola, ma le chiacchiere sono sempre quelle riportate dagli altri. Orvieto è irrisolta, ancora indecisa se essere città o paese. Orvieto è godereccia, caciarona e disfattista, perché imbevuta nell'olio dei luoghi comuni e rosolata nel grasso dei qualunquismi di circostanza. Collegata benissimo grazie ad autostrada e ferrovia che lambendola, la inseriscono sul pianeta Terra, Orvieto non comunica in alcun modo con quell'Umbria che l'ha confinata ai margini del suo perimetro. Da anni, annaspa verso l'alto Lazio e la bassa Toscana. Sfoglia, fiduciosa, vecchie mappe geografiche in cerca di blasonate parentele lontane, favoleggia di future annessioni e intanto rimesta le sue carte consunte di un passato remoto che arriva ad imparentarla con visionarie entità mitologiche, per metà umane e per metà figlie di Tuscia. Le ossessioni e i progetti di chi transita lungo Corso Cavour o si perde in quel dedalo di vicoletti umidi e bui, ingentiliti d'inverno solo dall'arancio opaco di lampioni intermittenti, sono da sempre le stesse beghe che agitano i palazzi che contano. I suoi immobili, intanto, restano lì, immobili. Esposti all'usura del tempo, del vento e della pioggia acida di parole di chi non risparmia critiche e non fornisce soluzioni. Contenitori in perenne rifrullo, alla ricerca di contenuti e contentini che non scontentino nessuno.

La politica - non chiamatela classe dirigente! - si attarda nelle decisioni che contano, si avvita sui massimi sistemi e lascia i suoi residenti a disquisire sul numero dei figuranti del corteo storico uscito rispetto all'anno precedente, anziché sulla necessità di trovare loro una collocazione definitiva. Mai contenta e mai soddisfatta ma anche mai arresa, Orvieto pecca di concretezza, si fida e confida che la soluzione ai suoi mali coincida con l'assoluzione finale. Non investe e non scommette sui giovani. È incapace di trasmettere loro perfino le pagine più recenti della sua storia, quelle del tanto vantato "Progetto Orvieto" che oggi e domani, avrebbe pure la possibilità di essere declinato in nuove accezioni. Li lascia da soli con il dilemma di chi s'interroga se occorra più coraggio ad andare o a rimanere per tentare di invertire la rotta. Rende grazie alla radicata superbia di generazioni ottuse. E forse, non crede nemmeno lei stessa nel proprio futuro. Sa tirare fuori le unghie, ma solo verso i suoi simili. Difficilmente si butta nella mischia e raramente si allea. Orvieto si spegne e si spende in lotte fratricide e tutte intestine. Rimasta orfana delle forze militari che riempivano la Piave, ma anche ristoranti ed alberghi, all'ultima delle città umbre non rimane che riscaldarsi con il jazz di fine anno per aspettare a braccia conserte, sulla vetrina delle proprie botteghe, l'invasione turistica. Nel difficile anno dei Maya, scandito da cataclismi e catastrofi mondiali, Orvieto ne ha avuti di nodi da sciogliere. Ha visto arrancare l'intero comparto del tessile, scollarsi pezzi identitari come la Drogheria degli Svizzeri che tutti credevano insostituibili, fusi quasi con la stessa rupe. Poi, la piena c'è stata davvero. Anche il fiume Paglia ha rotto i suoi argini, ribellandosi a monte e a valle di una discutibile pianificazione urbanistica che ambiva allo sviluppo. Ma a finire in ginocchio, con i piedi e le mani nel fango, sono state proprio le imprese.

In un arco di tempo quanto mai dilatato Orvieto ha più volte preferito guardarsi indietro, rimestando nei cassetti disordinati del suo passato e abbandonandosi a stucchevoli Amarcord di fronte alle foto ingiallite dei giuramenti e delle tante caricature che l'hanno popolata. Ha lasciato dietro di sé un campionario di persone e personaggi, macchiette viventi - rese poi tali dal cameratismo goliardico di altrettanti figuranti da presepe vivente - rivelatesi a modo loro geniali e irripetibili. Bimbetta capricciosa, Orvieto appare quasi condannata a non andare oltre se stessa. Batte i piedi a terra, per ottenere qualcosa che puntualmente non avrà. E, poi, fugge rabbiosa a nascondersi sotto il letto della vergogna, in attesa che la matrigna decida per lei. Fin troppo annaffiata nella sua retorica falsa e orgogliosa, ancorata su battaglie già finite Orvieto deve però reagire al tempo che vorrebbe metterla sotto vuoto e riscoprirsi più ironica.

S'attarda a parlare di nulla, senza fiducia, né speranza. Non si accorge, la belligerante cittadina rupestre, che tutto ciò che di più prezioso possiede, l'ha nascosto gelosa nelle sue viscere. Il bello ha finito per ingoiarlo, l'ha nascosto nella porosità rossastra del masso tufaceo su cui poggia. Nel rosso verace del sangue che le scorre dentro e che, a dispetto di tutto, in pochi ancora identificano come "il vino di Orvieto". Meglio, allora, il sapore ruspante delle lumachelle. Orvieto ha davvero sembianze di chiocciola. Piccola e lenta, ma tutt'altro che morta, avvitata semmai su se stessa, pronta a chiudersi a riccio dentro il suo guscio, a stringersi compatta per difesa, quasi fino a scomparire. E ritrovare poi forza e colore, solo osservando brillare la cuspide dorata del Duomo che la sovrasta, dopo che anni di tempesta l'hanno sferzata. Quella sproporzionata cattedrale, primo ed ultimo - unico vero? - emblema che il timido villaggio etrusco sa ancora rilanciare nel mondo è l'immagine di una potenza senza tempo, che pure talvolta appare sbiadita a chi, così abituato a conviverci al punto da assuefarsene, finisce per non prestarci più attenzione. Cosa aspetta la città? Di essere ascoltata, vissuta, partecipata. E gestita, non ingabbiata, con lungimiranza, intelligenza e umiltà.