cultura

"Sta finestra do' da?" Il nuovo lavoro letterario di Gianni Marchesini

venerdì 21 dicembre 2012
"Sta finestra do' da?" Il nuovo lavoro letterario di Gianni Marchesini

E' in uscita in questi giorni "Sta finestra do' da?" (Zorro Edizioni), il nuovo lavoro letterario di Gianni Marchesini. La copertina è di Walter Leoni.

"Anita e Marsilia - spiega l'autore - sono nate nell'immediato dopoguerra. Hanno abitato due poderi sgangherati e confinanti nel verde collinare delle campagne orvietane. Fino alla giovane età hanno vissuto nelle loro due famiglie di contadini mezzadri dei quali hanno appreso i modi, la cultura, i costumi, le tradizioni e, non ultimo, il dialetto. Appartengono, le due signore, alla prima generazione che dopo un secolo ruppe le trincee e uscì dai vincoli immutabili della propria comunità, che sopra la zattera del boom economico attraversò lo spopolarsi delle campagne e, infine, andò ad inurbarsi in una di quelle zone alluvionali che vennero assemblate sotto la rupe di Orvieto.

Erano bambine l'Anita e la Marsilia al tempo in cui "paravano" i maiali dentro i silenzi interrotti della macchia, avvertivano, nei rumori rappresi dell'unica camera, i genitori alzarsi ancor prima dell'alba, guardavano i padri uscire per spingere l'aratro, le madri, le nonne, i vecchi attendere alle mille faccende del podere secondo una precisa suddivisione dei ruoli e dei compiti che a questi erano annessi.

La comunità dei mezzadri confinante in un territorio, viveva secondo una ritualità non mutata: le feste, le ricorrenze, i gesti, le attitudini, perfino le burle seguivano leggi non scritte, ma incise nella necessità di sopravvivere e di conservare ad ogni costo il possesso del podere.

E veniva il giorno della trebbiatura, la festa delle feste. Tutte le famiglie circostanti giungevano per stringersi nel vicendevole aiuto intorno alla trebbia, un'astronave palpitante e puzzolente calata di notte sull'aia, uno spaventoso animale notturno dagli occhi spalancati, luminosi e gialli. All'alba i fasci del grano, le "gregne", accatastati sulla "Mèta", risucchiati da un'ansimante bocca metallica, restituiti in forma di spighe mondate dei chicchi da una liturgia umana di gesti, di richiami, di corpi, sarebbero stati avvolti intorno ad un lungo palo, il "Metùle", formando una cupola conica di paglia, il "Pajàro" e, più in basso, dentro una buca infernale, altri uomini avrebbero compattato le bucce del grano, la "Lolla", sparate da un grosso tubo posto sotto la pancia della trebbia in un pajàro figliastro: "il pajàro della Lolla". Poteva accadere che una sorta di disco rotante, appoggiato sulla cinghia del motore che scorreva veloce su due rulli esterni alla trebbia, emettesse un fischio acuto come la sirena di un allarme bellico: era il segnale che il peso del grano aveva superato i cento quintali. Correva allora una voce quasi allarmata per le bocche: "Hònno fistiàto a cento" e le giovani donne, veloci, radiose, partivano "a culo pinzo" per servire i maritozzi freschi di forno e la panata del vino speciale "favorito" per l'occasione.

Anita e Marsilia si sono sposate e la loro vita, superato il recinto del podere, è caduta nel mare ignoto della società aperta. Termina l'epoca dei contratti a mezzadria e in Italia ha inizio il boom economico. Per i migranti che provengono dalle case di campagna, si costruiscono nuclei abitativi suburbani, mentre i poderi, ormai disabitati, finiranno per inabissarsi nel desolante, assolato silenzio delle erbacce alte. I due grandi partiti popolari, la DC e il PCI, danno pensioni agli anziani e posti di lavoro ai più giovani; con il "Sòr Padrone", scompare la scrivania di fronte alla quale i padri di Anita e Marsilia restavano in piedi con il cappello in mano: colui che teneva in pugno i loro destini ora non possiede più un volto. Sono gli oggetti di consumo che traghettano l'emanciparsi dello status sociale il loro nuovo, invisibile padrone e la volontà di affrancarsi dalla vecchia sudditanza soggiace volentieri al vincolo amorale del possesso a tutti i costi.

Così "le Anite e le Marsilie" vengono promosse a pieni voti nel segmento sociale delle ex contadine. Entrano, corpi involontari trascinati dalla corrente, nel minuto atelièr piccolo borghese per misurare nuovi modelli di vita, affitti, condomini, assicurazioni, cucine economiche, inquilini, mariti, figli, scuole, analisi mediche: "culisteroli", "tricicoli", rate da pagare, mobili, mezzi pubblici, nuore, generi, e quindi "urte de nerve", "callane", insomma i disagi successivi al distacco dalla radice arcaica, appiglio della memoria, mai del tutto ripudiata.

Il dialetto delle due signore conserva molto dell'ordito originario e, in minima parte, ha risentito delle contaminazioni dovute al nuovo vivere in una società aperta. La sua traccia rurale è ancora forte, i motti e i modi di dire coloriti sono carne della comunità di origine e una certa terrigna volgarità si assolve volentieri per la naturalezza che proviene dall'essere parte viva della lingua stessa. Se Anita e Marsilia fossero ancora lì nella macchia, giovanissime ragazze con le cosce graffiate dei rovi a "parare il guerro"e la "scrofa" insieme a tutta la loro maleodorante famiglia, non direbbero fijo, ma fijjo, accentuandone e allungandone la pronuncia. Non direbbero andavo, salivo, rimanevo, bensì annào, salìo, rimanèo. Se avessero perpetrato tale linguaggio, per la verità, il loro dialogo ci avrebbe creato seri problemi di leggibilità costringendoci a facilitarne la lettura mitigandone le asprezze. Anita e Marsilia, due signore vicine alla terza età, rispondono ad una tipologia sociale frequente del territorio di Orvieto e di quella parte della Tuscia alla quale ci accomuna un dialetto pressoché simile.

E' trascorso molto tempo. Le due donne si ritrovano a casa della Marsilia e via via che il loro dialogo si svolge, percepiamo come i nuovi modelli di vita non siano riusciti a rapirle: restano, nell'anima, fiere sentinelle di un richiamo antico che briga per ricondurle a se. La loro è una lingua più abitata che detta: le parole, gli accenti, i motti, gli episodi, i sottintesi riportano a galla, come antichi reperti che emergono dal fondo mare, un mondo dimenticato che lascia al dialetto il privilegio di testimoniarne l'esistenza.
Nei sessanta anni dal dopoguerra, non c'è stata una rivoluzione industriale che abbia sconvolto la nostra comunità orvietana fino al punto di sovvertirne i costumi. Ancora, nei volti delle giovani adolescenti, anche quando azzimate come veline, si leggono i tratti antichi e i placidi sorrisi della nonna contadina. Le strutture familiari, rimaste per lo più unite, hanno permesso che il dialetto, insieme alle usanze, fosse tramandato pressoché intatto. Certo, quello delle generazioni successive, è andato via via modificandosi, ha perso le accentuazioni forti ingentilendosi per l'incombere della lingua italiana figlio della scolarizzazione.
Anita e Marsilia si rincontreranno e noi, con l'orecchio schiacciato sulla porta, scriveremo in un successivo libricino i loro nuovi dialoghi di ex contadine.

E "continuaressimo" (tanto per non perdere la consuetudine), a scriverne altri per raccontarvi di altre donne più giovani con la modesta pretesa di rappresentare, anche per chi verrà, un tratto vitale, soprattutto femminile, della nostra umanità.

Ringrazio la mamma Zaira che con i suoi libri, quello dei vocaboli del dialetto orvietano: "Dicesse 'na vorta uno" e gli altri sulle tradizioni e la civiltà contadina, continua ancora a starmi vicino e a darmi un aiuto e ringrazio lo zio novantenne Nello Parretti che, attraverso i suoi ricordi, mi ha suggerito nomi antichi e ricordato remote situazioni. Arivedérce aèsso!"

Gianni Marchesini

Sta finestra do' da - Estratto