cultura

World Press photo 2007. BEIRUT, atto 2° scena 1°

domenica 11 febbraio 2007
di Ambra Laurenzi
Spencer Platt, Beirut 2006 (Getty Images) Dentro la guerra, oltre la guerra, attraversarla come si attraversa un set di cartapesta da cui affiorano attori e comparse di un film che non avremmo voluto vedere, recitando una sceneggiatura che non avremmo voluto ascoltare. Ed eccolo invece questo teatro di guerra che nel secondo atto diventa una scenografia da attraversare su una fiammante auto rossa con la curiosità del turista e da catturare con un cellulare per essere spedita in qualche parte del mondo, dove abbondano già le immagini trasmesse dai mass media, che non contengono tuttavia il pathos dell’invio personalizzato. Spencer Platt ha colto nel segno raccontando le due facce della guerra, da una parte tragedia, dall’altra spettacolo, uno spettacolo cui siamo abituati ma che la fotografia di Platt rende tangibile nella sua terribile evidenza. E’ una fotografia perfetta, tanto da apparire costruita, ma non commettiamo l’errore di nasconderci dietro un dubbio, il giorno successivo all’attentato di Sharm el Sheikh avevamo provato lo stesso disagio. In molti quotidiani apparve infatti la fotografia di una coppia di turisti che, sorridente, si faceva fotografare di fronte alle macerie di un albergo distrutto dall’esplosione. La World Press Photo Foundation (che ogni anno premia la migliore fotografia prodotta nell’anno precedente) ha attribuito a Spencer Platt il primo premio. Non possiamo che condividere una scelta che finalmente guarda oltre e restituisce alla fotografia la sua capacità di essere uno strumento di acuta riflessione, non in conseguenza della rappresentazione del dolore ma del nostro comportamento di fronte al dolore. Come possiamo dirci contro le guerre se il nostro sguardo è sempre obliquo, fugace, pronto a fermarsi su un altro scenario? Abbiamo parole di circostanza per le povere vittime, per i poveri profughi, ma non riusciamo a vederli nemmeno quando il caso ci porta lì, in fondo sarà un’altra avventura da raccontare. In poco tempo lo scenario cambierà nuovamente. Le case si ricostruiranno, gli aberghi, nel giro di poche settimane, avranno lo stesso accogliente esotismo da rotocalco, l’industria del turismo riprenderà a macinare e le spiagge torneranno affollate. E dunque la fotografia esprime sempre di più la caratteristica di prova documentale da esibire come un trofeo, inaspettato e non incluso nel pacchetto viaggio, come se l’elaborazione dell’esperienza non fosse più un fatto interiore che si potrà, in un secondo momento, condividere. Facciamo sempre più fatica a cogliere le differenze tra realtà e rappresentazione della realtà, possiamo vivere l’esperienza terribile di un bombardamento come dentro un film, ma scattiamo una fotografia per avere la prova che sia avvenuto.