cultura

Stefano Bollani workshop: i segreti di uno stile geniale e irresistibile

lunedì 1 gennaio 2007
di laura
Nell’interessante formula del workshop - ideata e organizzata da Orvieto Centro Musica di Anna Rita Catarcia, in collaborazione con Umbria Jazz Clinics e l’Associazione Musicale Luigi Mancinelli già dall’edizione di Umbria Jazz Winter 2006, in cui fu John Scofield a tenere un memorabile seminario - è toccato quest’anno a Stefano Bollani, il giovane pianista italiano ormai noto e apprezzato in tutto il mondo, svelare, su sollecitazione delle domande dei partecipanti, qualche particolare su formazione, tecnica, predilezioni, debolezze, punti di forza, segreti. Brillante e disponibile, la buona dose di positiva ironia e di gusto dello spettacolo che il suo pubblico è abituato a conoscere, comunicativo e immediato, Bollani ha fornito non solo “ricette” da personalizzare per chi pratica direttamente il pianoforte o qualche altro strumento, ma preziosi squarci per meglio comprendere il suo modo personalissimo di fare jazz e per gustare con maggiore consapevolezza i suoi concerti. A UJW #14 lo abbiamo ascoltato in nuove, sperimentali, trascinanti interpretazioni insieme ai due musicisti danesi che fanno parte del suo trio al momento, Jesper Boldisen e Morten Lund. La solida tecnica e gli studi seri, rigorosi del Conservatorio sono la sua base: anche se considerati con molta ironia, e l’ambiente con netta diffidenza, si sentono e come, e nel suo suono e nella sua ardita tecnica importano e contano. Così come aiuta ed è fondamentale nel fare musica – dice - la formazione generale, il fatto di “aver fatto il liceo” anche se al Conservatoio, nella passione monacale, ortodossa e assoluta che si cerca in genere di sollecitare per lo strumento, di fare il liceo te lo sconsigliano. Il “ribelle” Bollani, naturalmente, i consigli a suo tempo non li ha seguiti, ha fatto il liceo, e mentre faceva gli studi pianistici seri, di nascosto dal suo maestro improvvisava nelle balere. “Il fatto è – afferma – che al Conservatorio si imposta lo studio come se tutti dovessero diventare Maurizio Pollini, non si pensa che a pochissimi è riservato questo destino, che molti finiranno inevitabilmente anche al piano bar; ti dicono che improvvisare rovina la mano…” Lui, Bollani, ha improvvisato fin dagli albori nonostante i divieti, però agli studi seri e ai prediletti Debussy, Ravel e Prokofiev deve tanto del suo pur personalissimo stile. Arrivare all’originalità, a suo avviso – e non si può che essere d’accordo – è un percorso tutto da sperimentare, in cui a guidare deve essere soprattutto il gusto personale, e l’ascolto, lo studio e l’approfondimento degli interpreti e dei musicisti che si amano. Ma arrivare "alla sua originalità", aggiungiamo, di certo deve richiedere, oltre all'amore, allo studio, all'ascolto e alla ricerca, una qualche dose di genio: forse genio e sana sregolatezza. “Certo, ci sono le regole anche nel jazz – afferma – ci sono gli accordi, il tempo, il ritmo, le scale… ma le regole sono solo il punto di partenza, perché se ci basassimo su di esse la musica sarebbe magari impeccabile, ma incredibilmente noiosa”. Ecco, impeccabile… ad aprire prospettive e orizzonti secondo Bollani può essere, invece, proprio “l’errore”. Si fa un accordo “sbagliato” – sbagliato per l’insieme tonale che si sta usando – e l’orecchio sente che quell’errore è interessante, che cambiando registro proprio quella stonatura può produrre nuovo lessico. Insomma, l’errore è creativo... e questo, mi viene da pensare, vale per ogni forma di creatività e di arte. “E non nell’ottica – afferma l’artista con la solita verve – che quando fai un errore e sei un personaggio basta ripeterlo più volte, così la gente crede che sia voluto, ma proprio nel senso di presupposto per una nuova ricerca, perché quell’errore apre una porta”. Al di là della solida preparazione e della padronanza tecnica, che non ostenta ma che come detto ci sono e si sentono alla grande, nel jazz non devono esistere regole per Bollani; ognuno cerca le sue formule e, a seconda delle circostanze, a seconda del contesto e del lessico generale può cambiarle. A lui – e nei concerti a Orvieto lo abbiamo sperimentato direttamente - piace soprattutto la sorpresa, lo spiazzamento: siamo in do maggiore, ti aspetti un accordo e lui te ne fa un altro; segui il filo dell'armonia e lui zac, ti sorprende con la dissonanaza; pensi che certe canzoni, ad esempio degli anni Cinquanta/Sessanta siano ingenue, insignificanti e lui te le rende talmente interessanti da farle diventare incredibilmente colte. Insomma, se una regola c’è, per lui è giocare con le aspettative del pubblico. Che Stefano Bollani giochi, si diverta, si percepisce e si vede anche dal suo modo di suonare, dal suo voler sempre creare un minimo di gag, un contatto scherzoso con i musicisti del suo gruppo o con il pubblico. E questo pur all’interno del contesto apparentemente dissonante di una musica piena di reminescenze colte e di virtuosismo. Ma lui la butta là come fosse un’inezia, senza tensione o emotività, naturale e disinvolto, con passione divertita e suonando con tutto il corpo. E se ai primi approcci il jazz lo ha affascinato perché gli sembrava soprattutto movimento, per poi scoprire che magari ce n’è molto di più in Debussy o in Prokofiev, è a quel movimento che, nella continua ricerca e nelle veloci spiazzanti geniali improvvisazioni, continua ad essere a suo modo fedele.

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