cultura

A Federico Rampini il Premio Barzini all’inviato speciale

sabato 30 aprile 2005
di Laura Ricci

Oggi nel pomeriggio, nell’ormai consueta cornice della Sala dei Quattrocento del Palazzo del Popolo di Orvieto, è stato consegnato il Premio “Luigi Barzini all’inviato speciale”. Ad esserne insignito in questa16^ edizione è stato Federico Rampini, inviato speciale di Repubblica.
La premiazione è stata preceduta dall’Orazione Civile di Monica Maggioni, vincitrice dell’edizione 2004, e dalla tavola rotonda sul tema: “Global news: l’informazione e i nuovi protagonisti del mondo”, coordinata da Stefano Rolando e con Antonio Di Bella, Massimo Fichera, Arrigo Levi, Monica Maggioni, Pierluigi Magnaschi, Andrea Margelletti, Federico Rampini, Dennis Redmont. L’incontro ha riflettuto su quale sia la nuova carta geo-politica che si profila all’orizzonte e su come venga raccontato dall’informazione lo scenario nuovo e mutevole dell’economia e del potere. Emergono sempre più Cina, India, Brasile, Malaysia e Corea e sembra passare in secondo piano il confronto tra Occidente e Islam, centrato sulla super-potenza degli Stati Uniti, sul consolidarsi dell’Europa e su un’indecifrabile Russia. La Storia, nell’epoca della comunicazione globale e in tempo reale, va accelerando i suoi ritmi, ansiosa di scoprire nuovi attori sulla scena internazionale. Quasi un identikit del futuro, per capire come il flusso della comunicazione accompagni questo passaggio probabilmente epocale, che sta ridisegnando la carta del mondo.

Temi particolarmente cari, questi del convegno, al giornalismo del premiato Rampini, che dalle pagine di Repubblica getta, proprio nell’ottica della globalizzazione, uno sguardo acuto sull’Oriente – in particolare sull’emergente, dilagante Cina – coniugando con stile sempre agile e arguto, non scevro da una lieve, quasi ironica, mai moralistica posizione etica, analisi antropologica, sociale ed economica.
Così, di fronte alla tragedia dello tzunami, smitizzando la grande catena “solidarietà” Rampini ad esempio lievemente, ma impietosamente scrive:

Un altro choc collaterale creato dallo tsunami è quello che dilaga tra le grandi multinazionali che producono in questi paesi per sfruttare il basso costo della manodopera locale. La banca d'affari Prudential ha già decretato che sono "a rischio" gli investimenti di due giganti americani in quest'area del mondo. La Nike e la Reebok - i due marchi più noti delle scarpe sportive - secondo la banca Usa starebbero riesaminando le loro scelte strategiche che avevano privilegiato Indonesia e Thailandia. La Nike fabbrica in questi due paesi il 43% delle sue scarpe, la Reebok il 36%. Nell'Asia meridionale l'impatto della globalizzazione non è certo stato sempre benefico: basti pensare ai casi di sfruttamento del lavoro minorile più volte denunciati da organizzazioni internazionali, o ai disastri ambientali dalla Union Carbide di Bhopal in poi. E non a caso da queste zone si sono levate alcune delle voci più critiche verso l'integrazione nel circuito dei mercati mondiali, come quella dell'ex premier Mahatir in Malaysia. Ma se la globalizzazione talvolta ha fatto paura, è ancora peggio quando la sua marea si ritira e rimette a nudo quella povertà antica che si sperava di aver debellato con l'aiuto degli investimenti stranieri.
Tanto più che oggi sul destino economico del sud-est asiatico pesa l'ascesa di un formidabile rivale-vicino, che è la Cina. Per la Nike e la Reebok, ma anche per molte altre multinazionali, smobilizzare gli investimenti dalle aree colpite dallo tsunami non significa tornare a fabbricare nei paesi ricchi. Esiste un'alternativa molto più attraente e competitiva. Già gli altri paesi asiatici vivevano con ansia l'avvicinarsi del primo gennaio, quando in base agli accordi del Wto cadranno i limiti alle esportazioni di tessili, abiti e maglieria "made in China". La caduta delle barriere preoccupava gli indiani, i thailandesi e i malesi ancor più dei produttori italiani o americani. Ora la tragedia del 26 dicembre rende ancora più vulnerabile l'industria tessile dell'Asia meridionale…….


E ancora:

Per i paesi ricchi questa tragedia suggerisce alcune dure lezioni.
La prima riguarda la nostra stessa sicurezza. L'inaudita carenza di infrastrutture e di piani di allarme per prevenire gli tsunami - quando sarebbe bastato reinvestire in quei dispositivi una piccola percentuale dei profitti delle multinazionali alberghiere - ha seminato il lutto anche tra noi. La sicurezza è un bene collettivo, che tradizionalmente viene garantito dagli Stati nazionali. Ma nell'economia globale in cui viviamo non possiamo più disinteressarci della "qualità" degli Stati neppure in zone remote del pianeta: della loro democrazia, del buongoverno, della cura degli interessi collettivi.
Un altro monito riguarda l'affidabilità delle nostre promesse di aiuti. Purtroppo non è vero che questo tsunami sia la più grave calamità naturale a memoria d'uomo. Nel 1976 in Cina un terremoto fece 600.000 morti, nel 1970 in Bangladesh un ciclone uccise 500.000 persone. Ma non c'erano turisti occidentali di mezzo.
Stavolta in mezzo a tanto dolore che ci colpisce direttamente, possiamo sperare che la nostra attenzione sia meno superficiale, la memoria meno corta. Forse non si ripeterà quel che è successo un anno fa in Iran. Un terremoto vi fece 26.000 morti il 27 dicembre del 2003. Degli aiuti promessi dai paesi ricchi è arrivato appena l'uno per cento.


E su Repubblica, direttamente da Pechino il 30 marzo 2005:

Stufa di essere bacchettata ogni anno dal rapporto del Dipartimento di Stato Usa sui diritti umani, la Cina ha deciso di restituire la cortesia.
Il governo di Pechino pubblica una pagella sul rispetto dei diritti umani nell'unico paese assente dal rapporto americano: gli Stati Uniti.
Il “New York Times” reagisce seccato. In un articolo intitolato "La Cina dà l'insufficienza all'America", sostiene che "invece del sobrio studio del Dipartimento di Stato, questo è un atto di accusa e dipinge una caricatura dell'America".
Ma chi va a leggersi il rapporto cinese in versione integrale in realtà rimane sorpreso per il motivo opposto: la sua attendibilità. Lungi dall'essere infarcito di slogan di propaganda antiamericana, è costruito attingendo a fonti ufficiali, spesso lo stesso governo di Washington. Elenca una serie di dati incontestabili - dal boom della popolazione carceraria alle ingiustizie razziali, dalla violenza privata alla piaga della povertà minorile - che potrebbero fornire la sceneggiatura del prossimo film di Michael Moore.
Alla fine i cinesi fanno centro: l'immagine degli Stati Uniti come la patria delle libertà, e la loro pretesa di dare i voti al resto del mondo sui diritti umani, ne escono malconce.


Federico Rampini è nato a Genova nel 1956, è sposato e ha due figli.
Il suo debutto nel giornalismo avvenne nel 1977 a "Città futura", settimanale della FGEI di cui era segretario generale Massimo D'Alema.
Redattore de L'Espresso e di Mondo Economico, diviene corrispondente a Parigi e inviato per l'Europa del Sole 24 Ore dal 1986 al 1991.
Dal 1991 al 1995 è vicedirettore del Sole 24 Ore e dal 1995 al 1997 è stato il capo della redazione milanese di Repubblica, il quotidiano per cui a tutt’oggi collabora come iniato speciale.
Ha collaborato come opinionista a Le Figaro, L'Express e Politique étrangère in Francia. E' consulente dell'Institut Français des relations internationales; Membro del Comitato Scientifico della rivista Critique Internationale pubblicata dalla Fondation Nationale des Sciences Politiques di Parigi; della rivista italiana di geopolitica Limes.