cultura
Trasformò la falegnameria in arte: Gualverio Michelangeli
domenica 2 febbraio 2003
C'è una vecchina dallo sguardo mite intenta a spazzare il balcone della sua casetta, chissà se lei può sentire il rumore di quel piccolo aereo che sta sorvolando la zona.
Non sembra spaventata da tutti quegli animali delle più diverse razze e grandezze che affollano la vetrina lì accanto, e di quella coppia di giovani innamorati, seduti abbracciati su di una sedia a dondolo, che la osservano sorridenti, forse non se ne è nemmeno accorta.
Sono tanti i personaggi che popolano il mondo di legno della bottega di Michelangeli, essere umani dagli sguardi serafici e assorti, bestie feroci che convivono senza problemi accanto a mici, topolini, scimmiette, asinelli e chi più ne ha più ne metta.
L'armonia e la serenità fanno da padrone in questa specie di città silenziosa e senza tempo, che continua a vivere, riprendendo a brulicare ogni volta che le luci del negozio si spengono, grazie esclusivamente all'impegno costante di quella squadra di artigiani, rinnovatasi nei decenni, che continua a lavorare ed a rappresentare ormai nel mondo intero il laboratorio Michelangeli.
Michele, Francesco, Angelo, Michele, Gualverio, sono loro i discendenti di una vera e propria dinastia che dalla fine del 1700 ad oggi è riuscita a trasformare una piccola falegnameria di una cittadina di provincia in una sorta di istituzione dell'artigianato locale.
E proprio a Gualverio, nato ad Orvieto, come, del resto, tutti i suoi antenati e predecessori, il 14 aprile del 1929 e qui morto ancora giovane nel 1986, si deve la scelta di arricchire il mobilificio di famiglia con la creazione anche di piccoli oggetti, soprammobili e decorazioni nati esclusivamente dalla creatività e dalla fantasia.
Le sue bambole, i suoi animali ed i personaggi tratti dal mondo della mitologia e dell'infanzia non vogliono essere un rifiuto della tradizione, piuttosto un comporre le regole acquisite con originali spinte creative. Il legno, fino ad allora re incontrastato della bottega stessa, si ritrova ad essere affiancato dal cuoio ed anche dalla ceramica. La direzione del laboratorio passò nelle sue mani a partire dal 1965, e già negli anni '70 la sua opera comincia a trovare larga eco nella stampa italiana ed estera. Ricevono infatti un'accoglienza entusiastica le grandi mostre di Berna, nel 1976, di Bruxelles, nel 1979, di Locarno, nel 1980, di Colonia e Milano, entrambe nel 1981, di Tokio e Parigi, nel 1983.
Sono anni costellati anche di premiazioni ed incarichi importanti: nel '73 viene invitato in Brasile come consulente per il progetto di sviluppo dell'artigianato nello stato del Rio Grande do Norte; nell'82 riceve a bruxelles il "Prix International Delvaux", alla sua prima edizione; nell'83 è la volta del premio internazionale "San Valentino d'oro". "Io a sedici anni - ha dichiarato proprio Gualverio in una rubrica da lui sottoscritta diversi anni fa - costruivo da me camere da letto, dal primo servizio all'ultimo ritocco. Sarei stato però del tutto incapace di produrre un banale sorcio.
La camera da letto richiede un'abilità costruttiva infinitamente superiore a quella richiesta dal sorcetto, eppure, dal tempo in cui ho imparato a fare il mobile al momento in cui sono arrivato al sorcio ho dovuto acquisire una quantità di cose ed altrettante ne ho dovute dimenticare". Tutto ciò per testimoniare come anche un'attività molto spesso ripetitiva quale quella artigianale possa in realtà evolversi e rigenerarsi attraverso la creatività e la curiositàdei suoi stessi artefici.
Il legno più povero del mondo, l'abete, comincia a rivelare, sotto le mani di Gualverio, un'insospettata carica espressiva. Sorride, ghigna, ammicca, fa l'indifferente, qualche volta è nostalgico e commovente, qualche volta drammatico. E, ad un certo momento, gli spazi degli interni non gli bastano più. I suoi oggetti, nella loro esuberanza, crescono di dimensioni, invadono, straripano. Di qui i pannelli, le composizioni, i grandi cavalli concepiti, anche sul piano tecnico, in modo che possano affrontare gli spazi aperti.
Sono elementi destinati a popolare strade, giardini e parchi, andandoli a rinfrescare, con una folata di cordialità. Oggi a portare avanti la grande tradizione di famiglia ci pensano le tre figlie di quest'ultimo maestro, Donatella, Simonetta e Raffaella, supportate dall'importantissima presenza della madre, Giuseppina. Con loro, per la prima volta, l'azienda comincia ad essere gestita esclusivamente da donne, tre architetti ed imprenditori, anzi, imprenditrici.
La catena quindi non sembra ancora pronta ad interrompersi, quasi a voler ribadire quel concetto di sudditanza ed obbedienza alla legge dioclezianea, già sottolineato da Gualverio nella rubrica sopra citata: "Questo imperatore ha lasciato il segno anche per aver solennemente stabilito che, da allora in poi, il figlio del barcaiolo doveva fare il barcaiolo, il figlio del vasaio il vasaio, il figlio del falegname il falegname, e nel medesimo luogo.
Così io mi sono ritrovato con un bisnonno, mastro Angelo, falegname ad Orvieto ai tempi di Napoleone e costui, ligio alla tradizione e a Diocleziano, ha regolarmente trasmesso di generazione in generazione il mestiere e la bottega, per cui, per forza di cose, ho l'hobby del legno ed il vizio dell'artigianato". Ma non sarà stato di certo soltanto il ricordo ed il rigore di una lontana legge a far si che tutti i membri di questa famiglia siano stati e continuino ad essere in egual modo trasportati dalla passione, dall'amore e dall'entusiasmo per un lavoro facilmente esposto a miti che però, almeno nella maggior parte dei casi, si dimostrano essere falsi e costruiti.
Sembra più giusto invece andare a ricercare la fonte e lo stimolo di tanta convinzione in un motto, il motto che Gualverio ha tramadato alle sue stesse figlie: "Costruire come se dovessi vivere mille anni; vivere come se dovessi morire domani". Parole che riecheggiano all'interno di ogni singola creazione che esce da questa bottega, come l'imponente scultura della Tierra sonada, ispirata a Cristoforo Colombo ed esposta, dal 1994, nel porto di San Juan a Puerto Rico, o come il più piccolo topolino depositato magari sugli scaffali dalla camera di qualche giovane giapponese. "Lavoravamo già da tempo a fianco del babbo - racconta Donatella - avevamo alle spalle studi ed esperienza, non eravamo più delle ragazzine, ma quando bruscamente ci siamo trovate sole provammo uno sgomento mortale.
Fu come se il pilota, in pieno volo, salutasse tutti e dicesse all'hostess "Continua tu!". Lì per lì fu un grosso trauma". "Per fortuna non eravamo esattamente delle hostess di passaggio - continua Simonetta - avevamo già delle responsabilità in seno alla bottega e stavamo facendo da un pezzo la nostra parte. Bazzicavo in laboratorio da quando avevo quattro anni. Ne conoscevo le persone, le tecniche, le macchine, gli angoletti, gli odori e gli umori. Certi umori di qualità rara che ti si attaccano alla pelle e diventano morale professionale, scala di valori, logiche lavorative. Sono cresciuta lì ed ho cominciato a lavorare giocando. Ad un certo momento mi sono accorta che stavo lavorando sul serio.
Bisogna dire però che tutto quel facevo aveva sempre il babbo come unico punto di riferimento, doveva piacere a lui, nient'altro, il resto non esisteva. Intendiamoci, non che fosse facile accontentarlo..." "Ogni tanto il babbo scopriva qualcosa che lo mandava in estasi - ricorda Donatella - un vecchio artigiano dimenticato, una nuova tecnica, un personaggio che l'appassionava, un filone di ricerca inconsueto. Il suo era una specie di turbine veemente e contagioso, una sorta di furor sacro che era d'obbligo condividere. Anche entusiasmarsi con moderazione comportava dei rischi. Nel suo mondo avrebbe voluto portar dentro tutti. Quel mondo era meraviglioso, pieno di cose belle e di cose nuove.
Con rabbia ci ha insegnato ad amarlo: ne valeva la pena. Appena ha potuto ci ha affidato dei compiti, prima le bambole e le borse, su su fino ai progetti di arredamento. Era terribile sentirselo dietro le spalle, ma quando, a cose fatte, lasciava vedere che era soddisfatto, toccavamo il cielo con un dito. Non che si sentisse sempre soddisfatto, di sè come degli altri.
Era il suo temperamento, appariva gioviale e scherzoso ma si mangiava le unghie. Era infinitamente più tormentato ed insicuro di quanto sembrasse. L'apprezzamento da parte degli altri gli era necessario per tranquillizzarsi, e non sempre bastava". "Di qui lo sgomento - continua Simonetta - quando, venutoci a mancare lui, nostro unico interlocutore reale fino a quel momento, abbiamo dovuto prendere in mano l'azienda con tutto ciò che questo comportava.
L'impreparazione era psicologica più che professionale. Sapere che avevamo in mano non solo l'avvenire nostro ma anche quello delle famiglie dei nostri addetti, mandare avanti un'azienda dove non era costume commettere sbagli, dover dirigere un'equipe di artigiani eccezionali, poco disposti a sopportare il minimo atto d'incompetenza... francamente non era un peso da niente". "Oggi - conclude Donatella - lavoriamo molto, i nostri guadagni personali sono deliberatamente modesti. Simonetta ed io ci siamo assegnate un mensile che è pressochè pari a quello dei nostri addetti.
Le nostre ferie durano quanto quelle loro. Trovo normale che sia così, ne sono perfettamente soddisfatta, l'importante è che l'azienda marci come "lui" voleva che marciasse. Guardiamo alla mostra di San Francisco con un particolare compiacimento perchè viene a segnare il momento in cui ci siamo riagganciate al ritmo di prima, quando le mostre si susseguivano almeno ogni paio di anni".
L'armonia e la serenità fanno da padrone in questa specie di città silenziosa e senza tempo, che continua a vivere, riprendendo a brulicare ogni volta che le luci del negozio si spengono, grazie esclusivamente all'impegno costante di quella squadra di artigiani, rinnovatasi nei decenni, che continua a lavorare ed a rappresentare ormai nel mondo intero il laboratorio Michelangeli.
Michele, Francesco, Angelo, Michele, Gualverio, sono loro i discendenti di una vera e propria dinastia che dalla fine del 1700 ad oggi è riuscita a trasformare una piccola falegnameria di una cittadina di provincia in una sorta di istituzione dell'artigianato locale.
E proprio a Gualverio, nato ad Orvieto, come, del resto, tutti i suoi antenati e predecessori, il 14 aprile del 1929 e qui morto ancora giovane nel 1986, si deve la scelta di arricchire il mobilificio di famiglia con la creazione anche di piccoli oggetti, soprammobili e decorazioni nati esclusivamente dalla creatività e dalla fantasia.
Le sue bambole, i suoi animali ed i personaggi tratti dal mondo della mitologia e dell'infanzia non vogliono essere un rifiuto della tradizione, piuttosto un comporre le regole acquisite con originali spinte creative. Il legno, fino ad allora re incontrastato della bottega stessa, si ritrova ad essere affiancato dal cuoio ed anche dalla ceramica. La direzione del laboratorio passò nelle sue mani a partire dal 1965, e già negli anni '70 la sua opera comincia a trovare larga eco nella stampa italiana ed estera. Ricevono infatti un'accoglienza entusiastica le grandi mostre di Berna, nel 1976, di Bruxelles, nel 1979, di Locarno, nel 1980, di Colonia e Milano, entrambe nel 1981, di Tokio e Parigi, nel 1983.
Sono anni costellati anche di premiazioni ed incarichi importanti: nel '73 viene invitato in Brasile come consulente per il progetto di sviluppo dell'artigianato nello stato del Rio Grande do Norte; nell'82 riceve a bruxelles il "Prix International Delvaux", alla sua prima edizione; nell'83 è la volta del premio internazionale "San Valentino d'oro". "Io a sedici anni - ha dichiarato proprio Gualverio in una rubrica da lui sottoscritta diversi anni fa - costruivo da me camere da letto, dal primo servizio all'ultimo ritocco. Sarei stato però del tutto incapace di produrre un banale sorcio.
La camera da letto richiede un'abilità costruttiva infinitamente superiore a quella richiesta dal sorcetto, eppure, dal tempo in cui ho imparato a fare il mobile al momento in cui sono arrivato al sorcio ho dovuto acquisire una quantità di cose ed altrettante ne ho dovute dimenticare". Tutto ciò per testimoniare come anche un'attività molto spesso ripetitiva quale quella artigianale possa in realtà evolversi e rigenerarsi attraverso la creatività e la curiositàdei suoi stessi artefici.
Il legno più povero del mondo, l'abete, comincia a rivelare, sotto le mani di Gualverio, un'insospettata carica espressiva. Sorride, ghigna, ammicca, fa l'indifferente, qualche volta è nostalgico e commovente, qualche volta drammatico. E, ad un certo momento, gli spazi degli interni non gli bastano più. I suoi oggetti, nella loro esuberanza, crescono di dimensioni, invadono, straripano. Di qui i pannelli, le composizioni, i grandi cavalli concepiti, anche sul piano tecnico, in modo che possano affrontare gli spazi aperti.
Sono elementi destinati a popolare strade, giardini e parchi, andandoli a rinfrescare, con una folata di cordialità. Oggi a portare avanti la grande tradizione di famiglia ci pensano le tre figlie di quest'ultimo maestro, Donatella, Simonetta e Raffaella, supportate dall'importantissima presenza della madre, Giuseppina. Con loro, per la prima volta, l'azienda comincia ad essere gestita esclusivamente da donne, tre architetti ed imprenditori, anzi, imprenditrici.
La catena quindi non sembra ancora pronta ad interrompersi, quasi a voler ribadire quel concetto di sudditanza ed obbedienza alla legge dioclezianea, già sottolineato da Gualverio nella rubrica sopra citata: "Questo imperatore ha lasciato il segno anche per aver solennemente stabilito che, da allora in poi, il figlio del barcaiolo doveva fare il barcaiolo, il figlio del vasaio il vasaio, il figlio del falegname il falegname, e nel medesimo luogo.
Così io mi sono ritrovato con un bisnonno, mastro Angelo, falegname ad Orvieto ai tempi di Napoleone e costui, ligio alla tradizione e a Diocleziano, ha regolarmente trasmesso di generazione in generazione il mestiere e la bottega, per cui, per forza di cose, ho l'hobby del legno ed il vizio dell'artigianato". Ma non sarà stato di certo soltanto il ricordo ed il rigore di una lontana legge a far si che tutti i membri di questa famiglia siano stati e continuino ad essere in egual modo trasportati dalla passione, dall'amore e dall'entusiasmo per un lavoro facilmente esposto a miti che però, almeno nella maggior parte dei casi, si dimostrano essere falsi e costruiti.
Sembra più giusto invece andare a ricercare la fonte e lo stimolo di tanta convinzione in un motto, il motto che Gualverio ha tramadato alle sue stesse figlie: "Costruire come se dovessi vivere mille anni; vivere come se dovessi morire domani". Parole che riecheggiano all'interno di ogni singola creazione che esce da questa bottega, come l'imponente scultura della Tierra sonada, ispirata a Cristoforo Colombo ed esposta, dal 1994, nel porto di San Juan a Puerto Rico, o come il più piccolo topolino depositato magari sugli scaffali dalla camera di qualche giovane giapponese. "Lavoravamo già da tempo a fianco del babbo - racconta Donatella - avevamo alle spalle studi ed esperienza, non eravamo più delle ragazzine, ma quando bruscamente ci siamo trovate sole provammo uno sgomento mortale.
Fu come se il pilota, in pieno volo, salutasse tutti e dicesse all'hostess "Continua tu!". Lì per lì fu un grosso trauma". "Per fortuna non eravamo esattamente delle hostess di passaggio - continua Simonetta - avevamo già delle responsabilità in seno alla bottega e stavamo facendo da un pezzo la nostra parte. Bazzicavo in laboratorio da quando avevo quattro anni. Ne conoscevo le persone, le tecniche, le macchine, gli angoletti, gli odori e gli umori. Certi umori di qualità rara che ti si attaccano alla pelle e diventano morale professionale, scala di valori, logiche lavorative. Sono cresciuta lì ed ho cominciato a lavorare giocando. Ad un certo momento mi sono accorta che stavo lavorando sul serio.
Bisogna dire però che tutto quel facevo aveva sempre il babbo come unico punto di riferimento, doveva piacere a lui, nient'altro, il resto non esisteva. Intendiamoci, non che fosse facile accontentarlo..." "Ogni tanto il babbo scopriva qualcosa che lo mandava in estasi - ricorda Donatella - un vecchio artigiano dimenticato, una nuova tecnica, un personaggio che l'appassionava, un filone di ricerca inconsueto. Il suo era una specie di turbine veemente e contagioso, una sorta di furor sacro che era d'obbligo condividere. Anche entusiasmarsi con moderazione comportava dei rischi. Nel suo mondo avrebbe voluto portar dentro tutti. Quel mondo era meraviglioso, pieno di cose belle e di cose nuove.
Con rabbia ci ha insegnato ad amarlo: ne valeva la pena. Appena ha potuto ci ha affidato dei compiti, prima le bambole e le borse, su su fino ai progetti di arredamento. Era terribile sentirselo dietro le spalle, ma quando, a cose fatte, lasciava vedere che era soddisfatto, toccavamo il cielo con un dito. Non che si sentisse sempre soddisfatto, di sè come degli altri.
Era il suo temperamento, appariva gioviale e scherzoso ma si mangiava le unghie. Era infinitamente più tormentato ed insicuro di quanto sembrasse. L'apprezzamento da parte degli altri gli era necessario per tranquillizzarsi, e non sempre bastava". "Di qui lo sgomento - continua Simonetta - quando, venutoci a mancare lui, nostro unico interlocutore reale fino a quel momento, abbiamo dovuto prendere in mano l'azienda con tutto ciò che questo comportava.
L'impreparazione era psicologica più che professionale. Sapere che avevamo in mano non solo l'avvenire nostro ma anche quello delle famiglie dei nostri addetti, mandare avanti un'azienda dove non era costume commettere sbagli, dover dirigere un'equipe di artigiani eccezionali, poco disposti a sopportare il minimo atto d'incompetenza... francamente non era un peso da niente". "Oggi - conclude Donatella - lavoriamo molto, i nostri guadagni personali sono deliberatamente modesti. Simonetta ed io ci siamo assegnate un mensile che è pressochè pari a quello dei nostri addetti.
Le nostre ferie durano quanto quelle loro. Trovo normale che sia così, ne sono perfettamente soddisfatta, l'importante è che l'azienda marci come "lui" voleva che marciasse. Guardiamo alla mostra di San Francisco con un particolare compiacimento perchè viene a segnare il momento in cui ci siamo riagganciate al ritmo di prima, quando le mostre si susseguivano almeno ogni paio di anni".

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