cultura

Quando l'arte si intreccia con la vita: Livio Orazio Valentini

lunedì 20 gennaio 2003
Se è vero che l'espressività e la creatività di un artista trovano spinta e giustificazione nei fatti, negli avvenimenti, in una parola nella vita dell'artista stesso, allora si può partire da questa formula, da questa teoria assodata per riuscire a comprendere e a scandagliare fino in fondo anche l'attività di Livio Orazio Valentini.

Più facilmente cioè, è bene informarsi prima delle vicende personali di qualcuno, preferibilmente cercando di avvicinarsi ai fatti con una certa sensibilità, per poter avere poi la presunzione di saper leggere ciò che egli, facendo uso magari di un alfabeto del tutto personale, ha scritto.

Possiamo scegliere quindi di andare per ordine, cominciando proprio da quel 24 dicembre del 1920, giorno in cui Valentini nasce a San Venanzo, continuare poi con il 1922, anno che lo vede trasferirsi con la sua famiglia, il padre Alvise e la madre Erminia Pacelli, ad Orvieto, ed arrivare, data dopo data, a questo 2003 finendo così di inquadrare i vari passaggi della sua esistenza.

Sarebbe però soltanto un semplice e freddo elenco fatto di numeri, che non aiuterebbe di certo a far comprendere il perché di quel travaglio, emblematicamente rimarcato in ogni sua stagione figurativa da quella linea insistente, indagatrice dello spazio e del suo contenuto, capace anzi di squarciarlo, lo spazio, come un dolore squarcia l'anima di chi lo vive o di chi lo ha vissuto. E se tutto questo può sembrare inquietante, vuol dire che si sta acquisendo lo spirito giusto per la lettura di immagini e forme dettate da un'unica musa ispiratrice: l'inquietudine appunto.

La vita di Livio Orazio Valentini si può dire segnata essenzialmente da due fondamentali eventi: il primo riguarda il lungo internamento nel campo di concentramento di Buchenwald, in Germania, durante la seconda guerra mondiale, dove rimase per due anni, dal '43 al '45; il secondo legato proprio al suo essere nato e cresciuto ad Orvieto, una città che conserva così tanto delle glorie del suo passato da riuscire a guardare al presente quasi con fatica, una città metafisica, dove il tempo sembra essersi fermato. La prigionia fisica ed il senso di prigionia spirituale concorrono insieme per dare la chiave di lettura di un'arte, espressa dal maestro attraverso la pittura, la scultura e la lavorazione della ceramica.

I suoi primi passi in questo mondo li compì da autodidatta, facendo i conti giornalmente con le ristrettezze economiche. Difficile riconoscere il vero Valentini nelle creazioni di questo periodo, composte per lo più da vedute oggettive. Non a caso tutto cambia a partire dal suo rientro in patria dopo la guerra: "Era un periodo quello - racconta - in cui ogni cosa intorno a me appariva da fare o da rifare". Intorno a lui e dentro di lui. Comincia a frequentare scuole serali, a fare le sue prime esposizioni, avendo modo così di conoscere e confrontarsi anche con altri artisti, alcuni di un certo calibro e di una più lunga esperienza come Gerardo Dottori.

Le opere di questo periodo sembrano voler dimostrare quella sua volontà di riappropriarsi in modo graduale, senza scossoni o immersioni traumatiche, di un'esistenza e di una dignità sottrattagli a lungo, ricoperta da così tanto fango da far nascere la paura quasi di averla persa. Una luce, dapprima più debole, poi via via più decisa comincia a rischiarare i suoi quadri, composti da paesaggi e architetture della sua città, da scene di vita semplice.

Il suo vero esordio avviene nel 1947, in occasione del VII Premio Nazionale "Città di Orvieto", poi, nel '51, tiene a Perugia la sua prima personale. Il superamento graduale dell'esperienza figurativa è lento e travagliato, costellato di tentativi, ripensamenti e crescenti certezze. Ed è in questo periodo, a cavallo tra gli anni '50 e '60, che Valentini elabora un linguaggio allo stesso tempo vicino a quello contemporaneo ma anche estremamente personale.

Per questo è stato coniato appositamente per lui il termine di "Informale orvietano". In questi spazi privi di profondità, all'interno dei quali l'essere vivente non può trovare collocazione, tornano a vivere i fantasmi del passato. Sono i morti che gridano ancora il loro dolore ed il non senso di quella spaventosa fine. Hanno perso le connotazioni umane, ormai sono soltanto larve. Non è semplicemente l'immagine di essi che colpisce lo spettatore ma anche la sensazione forte di sentirne le grida.

Durante questi anni, Livio Orazio Valentini comincia ad avvicinarsi alla scultura, attraverso l'uso della terracotta, della ceramica, del legno e del ferro. Quella sorta di ottimismo e di arioso ritorno alla natura rappresentato dalle così dette "germinazioni", nate tra il '68 ed il '70, subito dopo l'anno trascorso a Roma, sembrano comunque rappresentare soltanto una breve parentesi nell'attività dell'artista, quasi subito rioscurata dalla più pressante sofferenza esistenziale, che non risparmia evidentemente nemmeno gli animali.

Dopo la riesplosione della voglia di rinascere e migliorarsi infatti inizia il "ciclo degli uccelli", probabilmente quello che lo ha reso più famoso fra il pubblico e nell'ambito sociale. Uccelli trafitti, scarnificati, ingabbiati, asfissiati da un ambiente inquinato dal consumismo, metafore della decadenza, simboli di una dilagante corruzione che colpisce chi è più indifeso.

Fu proprio Valentini a fondare ad Orvieto, in una città così ricca dei segni e della cultura del passato, nel 1970, insieme a Gualverio Michelangeli e a Benedetto Burli, l'ormai noto Istituto d'Arte, all'interno del quale insegnò per 10 anni disegno dal vero. A questo punto della sua esistenza il maestro comincia ad essere ormai riconosciuto come tale un po' ovunque, sia in Italia che all'estero, in Portogallo, in Nigeria ed in America.

La rivisitazione del ciclo di Signorelli segna indiscutibilmente un'altra tappa importante del suo percorso creativo. L'osservazione dei vari personaggi che costellano lo scenario del Giudizio Universale lo porta a riscoprire un'impensata vicinanza tra lui e l'artista rinascimentale, riconoscibile soprattutto nel dolore, nella violenza, nel caos che dominano le opere di entrambi. Il ciclo del "Finimondo" rimane esposto, fra il marzo ed il maggio del 1986, presso il Chiostro di San Giovanni, come apertura delle celebrazioni del VII centenario del Duomo.

"Un grande sogno di sintesi cosmica". Con queste parole Livio Orazio Valentini definisce l'ultimo suo ciclo pittorico "Fuga nel Quaternario". E' come se l'artista scegliesse di ripercorrere le epoche tutte della storia e dell'esistenza umana, in un ultimo, disperato tentativo di comprenderla e, forse, giustificarla, arrivando a riconoscere l'incredibile piccolezza dell'uomo di fronte a tanta enormità di spazio e di tempo.

E' un tuffo rigeneratore nel passato più remoto, un'esperienza che lo aiuta non solo a raggiungere la piena maturità espressiva, ma anche un elevato grado di appagamento interiore.

Ma ancora molto può narrare alla gente questo artista, che guarda al presente da una finestra sui cui vetri si riflettono però nitide le immagine del passato, rinchiuso in una stanza che è la sua vita e la sua prigione.