cronaca

Caporalato ad Ischia di Castro. No, a Natale non siamo tutti più buoni

giovedì 17 dicembre 2020
di Rosaria Benini
Caporalato ad Ischia di Castro. No, a Natale non siamo tutti più buoni

Si è conclusa in questi giorni un'indagine portata avanti dal Nucleo Investigativo e dai Carabinieri Forestali di Viterbo, iniziata ormai un anno e mezzo fa, che vede accusata di caporalato un'intera famiglia di allevatori sardi residenti a Ischia di Castro, nell’alto Viterbese. Che la notizia trovi fondamento proprio in questi giorni, a pochi dal Natale, è interessante perché ci permette di sottolineare come "A natale non siamo tutti più buoni", come invece vorrebbe farci credere un famoso detto.

Braccianti stranieri, circa 30, trattati come carne da macello pur di creare profitto per le cinque aziende di allevamento a capo della famiglia in questione: turni di lavoro che arrivavano a durare anche 17 ore, pause pranzo di mezz’ora, zone per il riposo dei lavoratori adibite in vecchie e umide stalle adiacenti a quelle del bestiame e prive delle necessarie condizioni igienico-sanitarie, ma soprattutto paghe orarie di poco più di 1 euro a fronte degli 8 previsti dal contratto nazionale.

Di caporalato se ne parla sempre, in quanto quello della mano d’opera straniera a basso costo è un fenomeno che interessa tutta Italia, non solo il Mezzogiorno. Questo fatto di cronaca, però, dovrebbe interessarci più da vicino non solo perché è accaduto in un paesino poco aldilà dei confini umbri, ma perché alla sua scoperta si è arrivati a causa di precedente ancor più grave: in una delle aziende della famiglia, come riportano anche testate giornalistiche nazionali, all’incirca un anno e mezzo fa, era morto un bracciante albanese a causa di un malore.

Questo era stato avvolto in una coperta e trasportato lontano dall’azienda, in un campo al confine con la Toscana, dove il cognato della vittima sarebbe stato costretto dai titolari dell’azienda stessa a mentire sulla sua morte e a cambiare la versione dei fatti, pur di non far ricadere nel penale gli allevatori.

Alla retorica, tanto alimentata negli anni, de ‘lo straniero arriva per rubarci il lavoro’, bisognerebbe contestare: può essere considerato lavoro quello che dura più di 15 ore al giorno e che viene pagato poco più di 1 euro all’ora? È lavoro quello che non ti garantisce ferie, straordinari, malattia, contributi versati, condizioni dignitose per il suo svolgimento e sicurezza? È lavoro quello in cui se ti senti male, crepi senza che qualcuno provi a salvarti la vita o a garantirti una degna sepoltura?

Si può considerare lavoro, quello in cui si rischia di morire o di morire di fame? Del lavoro ci hanno fatto credere che lavorando tanto e lavorando tutti, ci saremmo arricchiti e avremmo incentivato il progresso. Ma se lavorando ad arricchirsi sono pochi, se lavorando non facciamo altro che mettere a repentaglio la nostra salute fisica e psicologica, se lavorando non ci si sentiamo nobilitati, perché continuare?

Il caporalato è una delle peggiori sconfitte dei nostri tempi; con esso semplicemente si arricchisce una ristretta cerchia di persone. Persone che evadono tasse e contributi, come nel caso di cui quest’articolo (87.000 euro evasi), giocano con la vita altrui e se ne fanno beffa, arrivano a intimidire pur di far fruttare i loro giri sporchi. Queste persone non creano lavoro, ma solo campi di sterminio e chi ne è vittima dovrebbe denunciare; perché alla fine, un po' di giustizia esisterà. Oppure no?