cronaca
Porano, scomparso Bruno Salticchioli.
domenica 24 febbraio 2002
di Fausto Cerulli
Era quell’uomo l’orologio del paese, e segnava soltanto il mezzogiorno che a quel
punto del giro del sole si stagliava la sua figura di appena desto sul portone della so-
la casa che aveva grandi le finestre e trascurato il giardino centenario.
Non aveva nessuna età: gli anziani lo ricordavano giovane, i giovani lo sapevano an-ziano, lui non diceva la sua vita oltre quello che della sua vita traspariva dal colore
della pelle, abbrunata per via di madre somala figlia di un mitico generale a Mogadiscio o a Massaia, siti della cronaca spicciola della storia.
E dall’Africa gli veniva quel suo saper suonare una minuscola armonica a bocca, piccola tanto che gli spariva nelle mani lunghe e ben tenute dall’oziare lieto e pensoso, e quel suo saper scolpire in vecchi rami l’anima d’una scultura, astuto Michelangelo e primitivo.
Di lui si ricordava che assisteva al commercio del padre, venditore di strane stoffe a
metraggio nei mercato dei paesi vicini: lui sorvegliava, fumandosi una pipa rica-
vata da radica selvaggia, la schiena accantonata a qualche tufo, ricercato nel vestire un gilè d’epoca altra e che gli si intonava come un tocco di vecchio-nuovo.
La sua sola fatica d’una vita: ma nessuno di lui pensava male, che fosse persona o-ziosa o perditempo: tempo e lavoro non avevano referenze, nella sua vita scandita
da un sorriso fieramente lento( ché sorridere a labbra larghe gli sarebbe stato fatica e fisica fatica) che a nessuno negava.
Ed anche il suo parlare era un’astuta gara sempre vincente contro il dire oggetti: lui parlava le sue favole anche se raccontava la sua cena di verdure a ricetta stralunata.
Lo ricordo come si ricorda una roccia, che fa la sua parte dura nel panorama. Poi,
improvviso come viene, il male, a differenza del bene che solitamente viene a fatica e a tempi lunghi, la sua bocca fu rigata da un ictus.
Me ne parlò come schernendosi, quasi scherzando: ma con gli occhi iniettati dal terrore dell’apprendista malato, del malato mai.Mi diceva che si era accorto dell’ictus solo perché, quella mattina al risveglio al mezzogiorno solito , non gli era riuscito
di stringere tra le labbra il cannello della pipa: e si era guardato, come poco faceva, in qualche specchio e si era accorto del suo male.
Lui che era esperto di tronchi e di radici se ne uscì a dire che un fulmine l’aveva
toccato, ecome in qualche favola africana mi spiegava che le grandi piante, se il
fulmine le tocca cominciano a morire: lo diceva col terrore che hanno gli increduli quando incontrano un fatto sconosciuto.
Se ne è andato in un mese: in Chiesa al funerale c’era, come si dice, tutto il paese.
Ma il fatto importante non è che fosse tutto presente, il paese, anche perché è
abitato da poca gente, anziana e adusa ai funerali d’ordinanza. Il sentimento che si tagliava con l’accetta era soltanto uno: se si è ammalato Bruno, ed è anche morto, la morte esiste, esiste veramente: corposa come la vita e forse più.
La morte di una roccia smuove pensieri strani: come quando sparisce un albero,
o appassisce una rosa di carta.
Adesso a mezzogiorno i suoi paesani, per orizzontarsi nel torrente del tempo, sono
costretti a contare i rintocchi del campanile della chiesa. E alle dodici sono tanti, i
rintocchi e si può perdere il conto.

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