sociale

Quando ci si sente soli anche in mezzo al mondo

mercoledì 29 ottobre 2025
di Angelo Palmieri

Capita di camminare per Orvieto in un giorno qualunque e di vedere tavoli apparecchiati per uno soltanto. Una signora che ordina un caffè e poi resta lì, a fissare il telefono come se fosse l’ultima fessura rimasta sul mondo. Oppure un ragazzo, con cuffie più grandi della testa e dai colori più improbabili, che passa veloce: è connesso a tutti eppure distante da chi gli sfiora la spalla sul corso.

La stampa nazionale oggi ci ricorda ciò che già tocchiamo nella vita quotidiana: uno su dieci non ha relazioni significative. Non semplicemente “pochi amici”: nessuno davvero da chiamare. È un dato che sferza più della statistica, perché racconta di un’Italia che si scopre fiume inquieto, dove il silenzio degli affetti pesa come un masso sepolcrale sulla salute e persino sulla speranza.

La solitudine non è una questione privata o “curtense”: è un fatto pubblico, che incide sulla tenuta della comunità. Dove i legami si sfilacciano, arriva la sfiducia. Dove manca qualcuno che ti aspetta, si spegne la voglia di partecipare. E allora ci si rinchiude — nelle case, nelle auto, dietro gli schermi — credendo di essere al sicuro mentre il mondo, precipitosamente, si allontana.

Nelle nostre città storiche, nate per ospitare il convivio e lo stare insieme, questa contraddizione brucia ancora di più. Mentre le piazze si accendono nei weekend, nei giorni feriali la solitudine resta una presenza fedelissima. E riguarda giovani e anziani, chi vive nelle frazioni e persino chi abita a due passi dal Duomo.

Che fare, allora? Credo serva rimettere mano ai luoghi dell’incontro: centri culturali, sale civiche, bar di quartiere che non siano solo esercizi commerciali, ma “magneti di comunità”. Servono politiche, certo, ma anche piccoli gesti quotidiani: domandare “come va?”, sedersi accanto, resistere alla furia del tempo che ci divora senza chiedere permesso e sostare un attimo per ascoltare davvero.

La solitudine è un’emergenza, ma può diventare una chiamata alla responsabilità: riconoscere che la vita degli altri ci riguarda. Sempre.

 

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