sociale

Carmela, un filo di voce contro l'estate che morde

domenica 29 giugno 2025
di Angelo Palmieri

Carmela ha 82 anni. Vive in un appartamento al terzo piano, in un condominio che d’estate diventa un alveare vuoto. Le voci dei vicini spariscono come le rondini quando annusano il caldo africano. Carmela resta, ostinata e fragile, attaccata a un filo di telefono che squilla sempre meno. I figli lavorano lontano, le nipoti sono comparse stagionali che appaiono solo a Natale.

Ogni sera lei accarezza la cornetta come fosse un rosario. Ripete le stesse frasi, gli stessi sospiri, gli stessi silenzi. Ma nessuno risponde. Dentro quelle stanze bollenti si moltiplicano i fantasmi: un dolore al petto diventa un allarme, un giramento di testa una sirena interiore. E allora chiama il figlio lontano, a 700 chilometri di distanza. Non perché stia davvero morendo, ma perché la linea tra il battito del cuore e il vuoto della solitudine si è fatta sottile come un respiro nella notte.

Il caldo non è solo un’emergenza climatica, è un moltiplicatore di solitudini. Trasforma i corpi in gabbie afose, fa evaporare le parole e incrina i legami. I pronto soccorso si riempiono di vecchi disidratati, ma anche di anime in piena crisi di panico, ingannate dal cuore che accelera, tradite da un respiro che non basta più. Le istituzioni? Dormono dietro i vetri oscurati dei palazzi, troppo occupate a discutere di fondi, piani e linee guida che non arrivano mai nelle cucine roventi. Manca il coraggio di pensare che la fragilità non è un costo da tagliare, ma un bene comune da custodire.

I condomìni si svuotano come conchiglie rotte, le scale diventano deserti silenziosi. Nessuno bussa più alla porta. Il vicino di pianerottolo non è più un baluardo di umanità, ma un’ombra fugace dietro un citofono muto. E intanto, l’anziana donna sente crescere dentro un’angoscia sorda, un buco nero che nessuna medicina può riempire. Ci sarebbero possibilità concrete, se solo volessimo accorgerci. Se solo smettessimo di delegare alla casualità le vite degli anziani.

Le reti informali di quartiere, le farmacie che si fanno sentinelle, le sentinelle di vicinato che diventano occhi, orecchie e mani di chi non ha più voce. Piccoli presidi umani che potrebbero anticipare la crisi, fermare la corsa disperata al pronto soccorso, restituire dignità ai pomeriggi silenziosi. Serve immaginare un’estate diversa, soprattutto nelle aree interne, quelle terre marginali dove i servizi evaporano come la pioggia sulle pietre calde. Lì la solitudine diventa una gabbia a doppia mandata: lontananza fisica e lontananza simbolica.

La voce solitaria non chiede la luna. Non pretende un esercito di operatori o medici in camice. Vuole solo una voce rassicurante dall’altra parte della linea, un volto familiare che bussi alla porta, un segnale che la ricordi ancora viva. Se davvero volessimo prenderci cura, non ci limiteremmo a centri diurni e numeri verdi. Costruiremmo presenza, quella materia invisibile che tiene insieme un quartiere, una comunità, una nazione che voglia ancora definirsi civile.

Perché nessuno dovrebbe essere costretto a vivere sospeso tra un bicchiere d’acqua tiepida e un filo di telefono che non suona. Nessuno dovrebbe evaporare in un silenzio che graffia l’anima, soprattutto sotto un sole che incendia anche le nostre addormentate coscienze.

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