C’è un rumore che non si sente, ma che percuote come un urlo: è quello del bullismo.
Non ha bisogno delle pareti scolorite di un’aula buia per manifestarsi; oggi oltrepassa telefoni, si insinua nei corridoi perfidi del digitale, si nutre di silenzi omertosi e sguardi avviliti. A pagarne il prezzo più alto sono i più vulnerabili e, tra questi, con inquietante evidenza, i minori stranieri.
Circa il 20% degli adolescenti italiani - uno su cinque - dichiara di essere stato vittima di episodi di prepotenza, isolamento o vessazioni.
Il dato, già preoccupante, si fa ancora più allarmante se si considera che, nella fascia tra gli 11 e i 13 anni, la violenta derisione si accompagna spesso a forme di esclusione sociale strutturata, reiterata, con ricadute psicologiche sintomatiche.
Il fenomeno, inoltre, assume sfumature diverse a seconda dei territori: nel Sud Italia si registra una maggiore incidenza di isolamento sociale, soprattutto tra i ragazzi stranieri; al Nord, invece, gli episodi tendono a emergere più spesso anche grazie a una maggiore propensione alla denuncia.
E mentre la violenza evolve, le risposte sembrano arrancare.
Oltre il 70% degli studenti non è in grado di riconoscere i segnali di pericolo nelle comunicazioni digitali, e spesso le vittime non si rivolgono a un adulto finché la situazione non è già degenerata.
Così, la fragilità si consuma in silenzio, mentre gli adulti - genitori, insegnanti, educatori - restano troppo spesso spettatori distratti, privi di strumenti di lettura e d’anticipo.
La microviolenza diffusa non è solo un problema di comportamento: è lo specchio di una comunità che fatica a riconoscere il volto dell’altro.
Se c’è una lezione da trarre, è che l’inclusione non è un gesto buonista, ma un atto potente di resistenza educativa e civile.
Lasciare un bambino solo nella tempesta del giudizio suppliziale dei coetanei significa svuotarlo e allontanarlo dalla possibilità di tracciare vie di crescita. Serve una pedagogia della presenza.
Una cittadinanza radicale che si faccia rete intorno ai più piccoli. Non bastano gli algoritmi a proteggerli, se le figure educative non sono capaci di leggere le fessure emotive nei loro sguardi. La sicurezza dei minori si costruisce con relazioni autentiche, spazi educativi vissuti, carichi di senso e cogenti anche sul piano simbolico.
Nessuna comunità può dirsi al riparo. La violenza tra pari non ha bisogno di margini geografici: nasce ovunque manchi chi dovrebbe fare da argine. E chi ha questo compito, troppo spesso, volge lo sguardo altrove.