Il mondo a portata di mano
sociale

Una vita che scorre, ma non accade

lunedì 23 giugno 2025
di Angelo Palmieri

Con Gli Indifferenti, Alberto Moravia non si limitò a narrare la decadenza di una famiglia borghese: portò in superficie due patologie sottili e persistenti della modernità, la noia e l’impazienza. In più occasioni, egli stesso osservò che gli errori dei suoi personaggi non affondavano le radici in una fragile malvagità, ma in una stanchezza aporica dell’anima e in una febbre cieca e ostinata di esistere: la noia come deserto di senso, l’impazienza come rigetto della durata e del lento lavorìo dell’esistenza.

Ma davvero quella rappresentata dallo scrittore romano è un’epoca lontana dalla nostra? Viviamo oggi in tempi caotici e babelici sul piano degli stimoli, ma impoveriti di significato, in cui l’errore non nasce dalla colpa, ma dal disincanto. La noia evocata dal romanziere del disincanto novecentesco non è semplice distrazione o stanchezza: è un’assenza strutturale di scopo. È una condizione ontologica, prima ancora che psicologica. In essa si rivela una frattura nei quadri cognitivi e simbolici che orientavano l’agire umano. 

Si pensi all’Ottocento, alle grandi narrazioni, a identità costruite in relazione a contrapposizioni. Non è forse questo lo spaesamento che viviamo oggi? Un’epoca che ha perso i grandi racconti, i legami profondi, la lentezza dei processi, e che perciò genera un’azione senza ancoraggio e telos.

Potremmo, con cautela, evocare qui Talcott Parsons: per lui, l’azione sociale è sempre orientata da sistemi di valori e significati. Ma che accade quando tali sistemi vacillano, quando le strutture motivazionali si svuotano e le norme non riescono più a sostenere il peso del desiderio? Ecco allora che la noia si trasforma in disagio, ma con una differenza semantica decisiva: il disagio si lascia nominare, la noia profonda no.

Essa resta muta, come un riverbero sordo nel cuore della modernità. In questo senso, la noia moraviana ha un’affinità con quella sartriana: in La Nausea, il protagonista vive la realtà come un eccesso insensato, una materia molle e brulicante, simile a un mollusco — ed è proprio questa l’immagine utilizzata da Sartre. Una vita che scorre, ma non accade. Un flusso che passa, ma non si lascia abitare: un delirio silenzioso.

E l’impazienza? Se la noia è assenza di orizzonte, l’impazienza è un’ossessione di significato. È la febbre dell’atto risolutivo, l’urgenza cieca che ci brucia dentro, impedendoci di dimorare nella continuità del vivere.

Alla luce di ciò, Byung-Chul Han ci offre una chiave di lettura preziosa: viviamo nella società della prestazione, dove non ci è più imposto di obbedire, ma di performare. Siamo passati da un potere che proibisce e sorveglia, per dirla con le parole di Foucault, a un potere che seduce e sollecita: sii libero, sii veloce, sii efficiente, sii performante. Ma in questa apparente libertà si annida una nuova forma di schiavitù.

L’impazienza è la postura psichica del soggetto performante: non sa abitare l’attesa, rifugge ogni imperfezione, ha paura della lentezza come se fosse fallimento. Teme soprattutto quel rischio implicito nella lentezza: che essa diventi introspettiva, e dunque inquietante. Qui risuona anche il monito implicito contenuto nell’elogio della lentezza, caro a Milan Kundera: ciò che non si lascia rallentare, difficilmente può incarnarsi.
Il soggetto impaziente non è-nel-tempo, ma lo consuma. Non c’è progettualità, solo reattività. Nessun divenire, solo scatti. 

L’urgenza cieca è una dislocazione temporale: rifiuta il presente, vissuto non come luogo dell’essere, ma come impedimento tra desiderio e compimento. Heidegger, in Essere e tempo, ci ricorda che l’essere autentico si dà solo nella misura in cui sappiamo attraversare la nostra finitezza, sostarvi e aprirci al futuro come progetto. Il Dasein, l’essere che siamo, è impastato di temporalità, e ogni tentativo di sottrarsene è un’esclusione dell’essere.

L’impaziente, invece, rifiuta la durata, pretende di adattare il ritmo della vita alla prestazione, riducendolo a una meccanica successione. Così facendo, non solo consuma la trama dei giorni, ma vi si perde in un vortice sterile: l’ansia prestazionale è, in fondo, una forma di esilio dal tempo: non permette di abitarlo, né di riconoscersi nella propria storicità. È una forma moderna e silenziosa di sradicamento ontologico.

Ecco allora che noia e accelerazione nevrotica non sono due malanni distinti, ma due nomi dello stesso smarrimento: l’una è il vuoto, l’altra la sua accelerazione. La noia è la condizione, l’impazienza la risposta errata. Un’umanità che non sa più attendere finisce col ferirsi, col commettere errori che non sono il frutto del male, ma del non-senso.

Ma in questa diagnosi si apre anche un varco. Se il vuoto genera insopportabili malinconie, allora il legame, quello che non si consuma, ma si custodisce, può ancora generare risposte. Costruire senso insieme, rallentare l’impazienza, abitare la noia senza soccombervi: forse è proprio questa la via d’uscita. Non per colmare il vuoto, ma per imparare ad attraversarlo. Senza fuggire più.

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