Viviamo nel tempo degli io sfiancati dalla luce dei riflettori, delle identità che si piegano come lamiere sotto il peso delle aspettative. L’angoscia non grida, non corre: si insinua. È un silenzio che rosicchia. Non è il panico, ma il silenzio del vuoto che resta quando l’altro viene espulso dalla scena del senso.
Byung-Chul Han l’ha detto con chiarezza: questa non è solo una società della stanchezza, è una società dell’angoscia. Perché ci siamo persi il “noi”, sostituito da un io ipertrofico e delirante, sempre in prestazione, mai in relazione. Chi ci sta di fronte è diventato uno specchio deformante o, peggio, un concorrente.
A tappare il buco che noi stessi abbiamo scavato non è lo psicologo di turno né l’ennesimo corso di mindfulness aziendale. A riempirlo, se ancora siamo in tempo, può essere solo il legame. Ma non la connessione fragile dei social, o l’intimità a contratto delle piattaforme.
Ci vuole il corpo caldo di una comunità. Serve cooperazione.
Le cooperative autentiche sono come quei vecchi telai che intrecciano fili diversi per farne trama. Non gridano, non brillano, ma tengono. Non sono Stato, non sono Mercato. Sono umanità organizzata. Lì dove il tempo non è solo una scadenza, ma un caffè preso insieme. Dove il prossimo torna volto, non variabile.
Curare l’angoscia oggi significa questo: ricucire. Non con la colla della retorica, ma con ago, filo e presenza.
Il mutualismo è l’arte antica di fare nodi che tengano. E ogni nodo è una piccola ribellione contro lo spazio inabitato che avanza.