Viviamo immersi in una complessità sistemica che non è più soltanto un dato del mondo, ma una condizione dell’esistere. Il filosofo Mauro Ceruti, tra i principali studiosi italiani dell’interdipendenza sistemica, ha descritto la nostra epoca come il tempo della complessità, in cui servono visioni capaci di connessione, responsabilità e cura. Non bastano soluzioni lineari o strategie riduttive: servono pensieri sensibili alle trame del reale, in grado di tenere insieme le tensioni e le fragilità del vivere.
La società attuale – accelerata, disgregata, in overload informativo – ci costringe a rincorrere un tempo che non ci appartiene più. Siamo diventati orfani di un respiro profondo, capace di restituirci il tempo per amare, educare, elaborare, essere. La privazione della lentezza coincide con una perdita di interiorità. Nell’ossessione per l’efficienza, la visibilità e il consumo si è scavato un vuoto plastico e lucente, che abbaglia ma non scalda.
Se non ascoltiamo quella ferita muta, ci ritroveremo soli in mezzo al rumore, smarriti in un’angoscia che non conosce nome. È dunque urgente, e insieme fecondo, recuperare l’anima: ridare profondità al desiderio, dignità all’attesa, senso all’umano. Questa consapevolezza ci interpella anche come operatori e promotori di alleanza sociale.
Può, oggi, la cooperativa – intesa non solo come soggetto economico, ma come impresa a vocazione trasformativa – farsi luogo di rigenerazione? La nostra risposta è sì, ma a una condizione: che sappia abbandonare la logica della standardizzazione, la tentazione di replicare modelli prefabbricati, “funzionanti” ma insensibili alle pieghe della realtà.
Il cosiddetto “modello IKEA” – dove tutto è previsto, incasellato, pre-assemblato – non funziona quando si tratta di umanità. Ogni territorio ha le sue rughe, ogni persona le sue ferite, ogni comunità le sue storie. La pratica sociale che ci interessa è quella che dà forma all’invisibile, che sa abitare le vulnerabilità senza addomesticarle, che costruisce un modo di esserci diverso: più lento, più attento, più capace di prossimità.
Solo così potremo liberarci da quella che potremmo definire una “democrazia in kit di montaggio” – un format partecipativo rigido e impersonale, applicabile ovunque, ma incapace di tener conto della densità delle relazioni, della memoria dei luoghi. Una democrazia che funziona sulla carta, ma che rischia di fallire nell’incontro con la vita reale.
Se il mercato accelera, il mutualismo moderno può decelerare. Se il potere assume tratti omologanti, sorveglianti, spietati, il soggetto generativo può custodire la differenza e aprire varchi di libertà. Il mondo divora il nostro ritmo interiore; un’impresa che genera legami può restituircelo come dono. È qui che può nascere un’economia dell’anima, che non separa il lavoro dalla cura, l’efficienza dalla giustizia, la produzione dalla vita.
Solo così, forse, riusciremo davvero a promuovere una pienezza dell’umano.