sociale

Il tempo lungo del cuore. Appunti da un pranzo di sabato

sabato 14 giugno 2025
di Angelo Palmieri

C’è una piccola abitudine che si ripete, nei fine settimana che ci è dato condividere: un tavolo apparecchiato senza fretta, due bicchieri già pronti, il vino, rigorosamente frizzantino, versato con la parsimonia di chi sa che ciò che conta non è la quantità, ma il tempo. A pranzo con Gianfranco, il mondo smette per un attimo di correre: si ferma, respira, ascolta. E ci interroga.

Non so dire se sia più un dirigente o un viandante. So però che, quando lo guardo negli occhi, stanchi ma lucidi, vedo la fatica di chi lavora quindici ore al giorno, senza la patina cinica di chi ne fa un vanto.

Gianfranco Piombaroli attraversa l’Italia in macchina, in pensiero, alla ricerca di quello che lui chiama “il battito dei territori”.
Una formula che mi è rimasta addosso: perché è la contrapposizione esatta a quel tecnicismo che alcuni chiamano “cognitarismo”, dove si sa tutto ma si sente poco.

Sì, perché oggi, in questo tempo affannato e corto, rischiamo di dimenticare che la progettazione sociale, se vuole essere tale, ha bisogno di pelle, non solo di procedure. Ha bisogno di occhi che vedano, di parole che ascoltino, di cuori che non cedano alla rassegnazione.Ha bisogno di orizzonti.

E in questo, Gianfranco, anche se non lo ammetterà mai, rappresenta una figura preziosa: per la profondità del pensiero, per la sua tenacia mite, per quella singolare capacità di passare da una riunione amministrativa a un dialogo con un ragazzo in comunità, senza mai perdere tono né empatia.

E soprattutto, per una cosa che mi colpisce profondamente: la sua costante, concreta attenzione ai diritti di chi soffre di malattia mentale. Una presenza silenziosa ma ostinata accanto agli ultimi degli ultimi, quelli spesso dimenticati anche dal dibattito pubblico. Non c’è nulla di celebrativo in queste righe.

C’è solo un'urgenza che sento: quella di tornare a riconoscere e valorizzare figure che non si accontentano del compitino, non si piegano al burocratese, non si trincerano dietro gli acronimi. Figure che credono ancora che le persone vengano prima dei progetti, e i territori prima delle scadenze. Quando, nei nostri pranzi del sabato, parliamo di poesia, di infanzia negata, di periferie da cui può nascere bellezza, mi accorgo che stiamo facendo — senza saperlo — pedagogia pubblica.

Forse è questo che dovremmo recuperare oggi: non solo il welfare, ma l’anima del welfare; non solo le strutture, ma lo spirito. E in fondo, parlare di Gianfranco oggi è un modo per aprire questo discorso in maniera lieve, ma radicale. Lo dico da sociologo e da cittadino inquieto: forse oggi avremmo bisogno di più esperienze che, come quella di Polis, provano a restare in ascolto del reale, senza farsi travolgere dalla retorica dei bandi.

Più sguardi capaci di unire pensiero e concretezza.
Più cammini discreti e appassionati.

Anche ad Orvieto, dove non mancano esperienze generose e traiettorie in cammino, avvertiamo quanto sia prezioso mantenere viva quella tensione tra ascolto e futuro, tra logica e presenza.

Perché non basta fare: serve, ogni tanto, qualcuno che ci ricordi perché facciamo.
Qualcuno che, senza far rumore, continui a legare l’azione alla poesia, la fatica al desiderio.

E il progetto, sempre, alla persona.

Grazie, Gianfranco.

 

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