Il mondo a portata di mano
sociale

Lessici per restare umani

mercoledì 28 maggio 2025
di Angelo Palmieri

Viviamo giorni feriti da una bulimia sonora, da voci spezzate e parole rese afone dal troppo dire. È il tempo di una logorrea infodemica, dove ogni lemma si fa scheggia impazzita, arma retorica nelle mani di chi urla senza ascolto.

Ma il problema non è solo il rumore: è la perdita di profondità. Troppe parole precipitano leggere, svuotate di senso, smemorate del loro compito più nobile: custodire il mondo con cura e gentilezza.

Siamo immersi in una Babele quotidiana che non narra più, ma assalta; che non disvela, ma confonde. I talk show si travestono da tragedie greche, ma senza catarsi; le piazze digitali emettono sentenze, non domande; gli algoritmi orientano le coscienze senza chiedere permesso, amputando ogni possibilità di un pensiero che diventi incontro, che si faccia carne di relazione.

E allora viene da chiedersi: chi ha ancora il coraggio del peso leggero di un gesto del dire che guarisca? Chi osa oggi generare legami dove l’aria sa di scissione, di avvilente e putrida morte? Accogliere dove tutto invita a respingere, dove ogni respiro somiglia a un addio consensuale, quasi sottoscritto col silenzio.

La parola viva è materia fragile e potente insieme. È architrave dell’umano. 

Con essa si nomina, si crea, si condivide. È attraverso il linguaggio che diventiamo responsabili: “essere di parola” è un esercizio di fedeltà al bene, è impegno che si rinnova nel dire e nel tacere. L’uomo è ciò di cui si prende cura, ci ricorda Heidegger. 

E custodire le parole è già una forma dell’abitare, un modo per esistere nel mondo con grazia.

In un’Italia stanca, smarrita, quasi disincantata, occorre ripartire da una grammatica che unisca etica e bellezza. Perché ogni sillaba pronunciata può essere carezza o lama. Il proverbio africano ammonisce: “Una parola può ferire più di una lancia”. E troppo spesso, anche nei discorsi pubblici, ci si dimentica di questo potere.

Abbiamo bisogno di una rivoluzione delicata: non una lotta per primeggiare, ma un’attenzione che diventi alleanza. Meno fazioni, più mediazioni. Meno proclami, più silenzi significativi. Una pedagogia del comunicare che sappia scegliere la sobrietà e la tenerezza come atti politici.

Penso agli invisibili, a coloro che abitano le soglie del nostro disinteresse quotidiano: agli anziani dimenticati, che hanno vegliato sulla memoria e ora attendono uno sguardo; ai bambini cresciuti tra schermi muti e presenze intermittenti; agli adolescenti in balìa di rotte incerte, senza una stella polare che li orienti; agli adulti che hanno smarrito le parole per dire la fatica; agli ultimi, ai soli, a chi non ha più nemmeno il diritto di essere nominato.

A tutti loro dobbiamo parole che non feriscano, ma che sanino. Parole buone, umili, spezzate insieme come pane condiviso al vespro, capaci di fare spazio, di restituire il senso di un’appartenenza possibile.

Jack Gilbert sognava vocabolari perduti, “che possano esprimere alcune cose che non possiamo più dire”. Anch’io sogno – con ostinata fedeltà poetica – nuovi alfabeti della cura, capaci di restituire profondità agli sguardi, luce ai volti, linfa al nostro stare insieme, come comunità che si riscopre nel gesto semplice del nominarsi a vicenda.

Viviamo una società dallo sguardo blasé, che ha smarrito il tremore dell’attesa, incapace di farsi ferire dalla bellezza o dal dolore altrui.

Pensare il linguaggio è già immaginare un'altra forma di vita: è decidere, ogni giorno, se spalancarsi o richiudersi, se fare spazio o innalzare muri. Spalancare non è un gesto episodico, ma una postura interiore, un orientamento dell’essere. È la ginnastica invisibile del cuore che educa alla prossimità, che insegna a convertire la distanza in presenza, la differenza in fraternità.

È giunto il tempo di dire parole che non si limitino a descrivere il mondo, ma che lo trasformino. 

Non ci salverà un algoritmo, ma un gesto del dire pronunciato con verità, una voce capace di farsi casa, approdo, futuro.

È una parola, sì. Ma proviamo a crederci. E a pronunciarla insieme.

 

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