Un tempo il naufrago era sacro. Portava sulla pelle l’odore salmastro del mare e negli occhi il mistero del mondo. Appariva tra i flutti come un messaggero degli dèi, e i popoli lo accoglievano con gesti lenti, quasi rituali, come chi teme di ferire qualcosa di prezioso.
Omero ce lo racconta nel sesto canto dell’Odissea: Ulisse giunge stremato sulle rive di Scheria, il corpo segnato dalla salsedine, la voce appena un sussurro. Eppure Nausicaa, giovane principessa dei Feaci, non fugge. Lo guarda, lo ascolta, gli tende una veste pulita. Vede in lui non l’invasore, ma il prossimo. E in quello sguardo che precede ogni giudizio, vibra ciò che Hans Jonas ha chiamato principio responsabilità: la capacità di rispondere all’altro non per calcolo o convenienza, ma perché la sua semplice esistenza ci interpella.
C’è una grazia femminile che, nell’epica, custodisce l’umanità. Nausicaa, la fanciulla dei Feaci, accoglie il naufrago senza chiedere il nome, come chi riconosce in chi giunge un riflesso del divino. Lavinia, nel racconto virgiliano, è silenziosa ma decisiva: non parla, non sceglie apertamente, eppure il suo destino è quello di unire due mondi. In lei si compie la fusione tra il popolo che accoglie e quello che arriva, tra radice e migrazione. È la figura di un’alleanza annunciata dagli dèi e suggellata con la storia.
E oggi? Cosa vediamo noi quando un migrante tocca terra? Spesso solo il relitto da cui scende, la pelle scura, la fatica muta. Raramente ci chiediamo da dove venga, che vento lo abbia spinto fin qui, quale madre lo attenda invano. Nella nostra Europa smarrita, securitaria e attraversata da rigurgiti populistici, dove l’ideologia è evaporata e la memoria si fa corta, l’altro ci appare come disturbo più che come domanda.
Luigi Zoja, nel suo libro La morte del prossimo, parla di un Occidente che ha perduto il senso della prossimità. Non sappiamo più chinare lo sguardo verso il volto dell’altro, non perché ci manchino i mezzi, ma perché ci manca l’immaginazione. Il migrante oggi giunge in silenzio, quasi in punta di esistenza. Non chiede nulla, neppure quando tutto in lui urla che ha bisogno. È il nuovo Ulisse, ma senza Nausicaa.
Ma se torniamo ai miti, lì dove l’umanità ha imparato a pensarsi, scopriamo che l’ospite non era una minaccia, ma un destino. L’incontro tra il forestiero e la città era un momento sacro, uno spazio di verità. La distanza si faceva occasione di senso, e il viaggio non era un’invasione, ma una possibilità.
Oggi, sulle nostre spiagge, approdano uomini e donne che non parlano. Non perché non abbiano voce, ma perché la nostra civiltà ha dimenticato come ascoltare. La domanda più urgente non è cosa ci porteranno gli stranieri, ma chi siamo diventati noi, se non sappiamo più riconoscere la fragilità di chi arriva.
Offrire rifugio non è una tecnica. È un atto poetico, come quello di Nausicaa che tende la veste a un estraneo. È un gesto che restituisce il suo nome a chi era stato reso invisibile. Come ricorda Predrag Matvejević nel Breviario mediterraneo, il mare non è solo una frontiera liquida, ma una trama interiore: un mare interiore, fatto di memorie, rotte antiche, lingue incrociate, mani tese e mani perse. Ogni migrante che lo attraversa non è solo un corpo in fuga, ma un frammento di questa storia comune che ci appartiene, che ci precede, e che ci chiede di non essere dimenticata.
Ogni approdo è l’inizio di un racconto, ogni straniero una possibilità di rinascita.